Il 23 ottobre del 1954 (un sabato di quarantanove anni fa) un fiorentino
venne a raccontarci che mentre camminava in via dei Pecori aveva visto
saettare nel cielo un corpo luminoso di forma ellittica e di colore
azzurrino, seguito da una scia, la cui traiettoria era, grosso modo sulla
direttrice Arcetri-Rifredi.
Lui non poteva sbagliarsi (era un addetto ai
lavori, uno studioso di scienze fisiche) e quello che aveva visto era un
disco volante. Non poteva essere un meteorite perché volava sotto le nuvole,
che quella sera, secondo Peretola, erano a 1080 metri di altezza dal suolo.
Ci telefonarono altri fiorentini per fare analoghi racconti, e da quel
sabato sera, e per diversi giorni il nostro telefono divenne rovente; in
quel tempo remoto ci occupavamo — a vario titolo — della cronaca de La
Nazione e di quella della sua edizione serale, e il centralino passava a noi
le chiamate dei lettori.
Furono giorni straordinari, e in un certo senso
(nonostante la memoria non ci faccia difetto) a volte ci domandiamo se li
abbiamo vissuti sul serio, o se quello che ricordiamo sia stato soltanto un
sogno.
Il top della «stagione-ufo» fu il 27 ottobre: era come se un
ipotetico stato maggiore dei dischi volanti avesse deciso di fare le sue
grandi manovre a Firenze e in Toscana perché in quel giorno, e in quelli
immediatamente successivi, gli Ufo (ora a disco, ora a palla, ora a
palloncino, ora a sigaro, ora ovali come un pallone da rugby) si
presentarono nel nostro cielo, isolati, a coppie, a squadriglie, a stormi,
ora saettando diritti come proiettili, ora facendo acrobazie, evoluzioni.
Noi cominciammo a fare titoli e sommari a caratteri cubitali, e quando nelle
primissime ore pomeridiane del 27 ci segnalarono che alcune «squadriglie»
stavano dirigendosi verso il centro di Firenze, salimmo di corsa le scale
del palazzo di via Ricasoli, allora sede de La Nazione, per essere al di
sopra dei tetti e vedere più cielo possibile.
Passarono due dischi «accanto»
al Cupolone (in realtà erano molto lontani), poi altri due, poi altri
ancora, e sempre a velocità supersonica. E mentre si moltiplicavano gli
avvistamenti e le telefonate, cominciò a nevicare.
Una neve che ci sembrò
prematura, trattandosi del cielo di Firenze e del mese di ottobre. E infatti
non era neve. Guardando meglio, sembrava che dal cielo cadessero fiocchi di
lana, no, anzi bambagia, no, anzi filamenti di vetro, no, anzi dal cielo
stava calando su Firenze e dintorni una gigantesca ragnatela.
Per un cronista c'era da perdere la testa, e forse per un po' la perdemmo
anche noi. Allo stadio, circa diecimila persone convenute al comunale per
una partita di allenamento tra la Fiorentina e la Pistoiese avevano smesso
di guardare la sfera che rotolava sull'erba e si erano messi a guardare le
sfere che un misterioso giocatore impazzito calciava in ogni direzione del
cielo, dove non c'era una rete, ma un'immensa ragnatela bianca.
Qualche
bravo cittadino riuscì a raccogliere qualcosa. Poco, ma qualcosa. Poco,
perché la ragnatela, come tutte le ragnatele, non solo era effimera e
labile, aveva vita brevissima, ma era anche inconsistente, c'era, ma era
come se non ci fosse stata, la prendevi sì con le mani, ma si disfaceva, e
in pratica non avevi preso un bel niente. Poi uno riuscì a imprigionare
dentro una boccetta un frammento di quella magìa, poi un cronista catturò un
altro pezzo di favola che era «nevicato» a Sesto Fiorentino dopo la
divisione di un disco in tre dischi, che ora sembrano ali di gabbiano, ora
gocce d'acqua, ora cappelli di mandarini cinesi.
Portammo il tutto al
professor Giovanni Canneri, illustre scienziato, direttore dell'istituto di
chimica analitica che dopo un esame spettografico emise la sentenza: i
fiocchi erano fatti di boro, silicio, calcio, magnesio, forse si trattava di
un vetro borosilicico.
Per giorni ci furono discussioni su come dal cielo
fosse potuta cadere una lana di vetro, ma andiamo avanti nella cronaca
perché per giorni proseguirono le grandi manovre, e formazioni di dischi
sfrecciarono su Lucca, Pisa, Livorno, Siena, Grosseto, Arezzo, Prato,
Pistoia, Massa, Carrara, insomma su città, paesi, borghi, coste e montagne,
della Toscana. Alla Consuma le abetine si coprirono di neve, e noi (allora
accaniti fumatori di pipa) tirammo fuori i fiammiferi di legno, e ci
arrotolammo sopra le ragnatele facendo invisibili gomitoli, però visibili
per lo spettrografo di Chimica Analitica che rispose come in precedenza. Ma
intanto l'amico astronomo Guglielmo Righini ci rassicurò (visto che avevamo
toccato tante ragnatele) che i fiocchi non erano radioattivi.
Quell'ottobre favoloso non voleva finire. Era già il primo novembre, un
nuovo mese, e si sarebbe potuto cambiare musica, cambiare disco, e invece
no, per non farci mancare nulla, ecco i marziani. Che atterrarono con un
disco fatto a doppio cono (una novità dopo tante ali di gabbiano, e cappelli
di mandarini cinesi), dal quale sbarcarono due ometti graziosi, cortesi,
sorridenti, che fermarono una colona, la Rosina, a Cennina di Bucine, e le
portarono via un mazzo di garofani e di giorgine che lei voleva mettere
sull'altare della chiesa parrocchiale perché «ricorrevano» i morti. Le
portarono via, ridendo come matti, anche una delle calze nere che lei
intendeva mettersi entrando nel sacro edificio. Inutilmente Rosina cerco di
riavere la propria roba. «Io andare chiesa..» — diceva — «... Parroco non
fare entrare senza calze... Avete capito?. I marziani rispondevano «...Liù
...lioi... loai. luì...! e ridevano come matti. Però sempre cortesemente.
Poi partirono, e quando Rosina raccontò l'accaduto, nonostante i suoi
precedenti di brava e saggia massaia, le illazioni si sprecarono:
allucinazione, suggestione, miraggio.
Tutto, ovviamente, era possibile.
(Curiosamente, però, nonostante che investigatori piovuti da chissà dove e
abitanti locali frugassero il bosco palmo a palmo, la calza nera e i
garofani non furono mai più trovati).