INFINITI.
L'ARRIVO DELLA SONDA SPIRIT SU MARTE HA RIAPERTO L'ETERNO DIBATTITO
Un altro mondo è possibile. Ma non sulla terra
«Ce amès è vi itèch li tès alizé néümi assilé kâ ianiné êzi atèv ni lé tazié è
vi med iéex éziné rabrix ni tribax». Non siamo impazziti. È che stiamo scrivendo
in marziano. In questi giorni in cui la sonda Spirit della Nasa è atterrata (o
ammartata) su Marte, e che il mondo intero sta cercando forme di vita
extraterrestre, parliamo già la lingua degli abitanti del pianeta rosso. Non è
un risultato da poco, converrete. Ma c'è un trucco. In realtà, questa frase, che
tradotta fa: «Io vengo a te sempre attraverso questo elemento misterioso immenso
che avviluppa mio essere e mi dà lancio a te per tutti miei pensieri e bisogni»
l'aveva scritta, il 3 ottobre 1898, Hélène Smith, una medium ginevrina di
origine ungherese. La Smith, che diceva di comporre in trance interi romanzi in
lingua marziana, era una donna portento. Una ciarlatana, ma geniale. Durante le
sue sedute spiritiche, infatti, aveva composto anche un romanzo orientale
ambientato nel XV secolo in cui s'identificava con una principessa indù, un
altro romanzo in cui raccontava di essere in contatto con alcuni spiriti
rifugiati su Marte, Uranio e Luna e un libro in cui vestiva i panni di Maria
Antonietta d'Asburgo Lorena in un corpo a corpo con il conte di Cagliostro.
Persino il grande linguista francese Ferdinand de Saussure si era occupato di
lei e, rimproverandole che il suo marziano era in realtà un miscuglio di
francese, ungherese e inglese, la Smith s'inventò addirittura un'altra lingua:
l'ultra-marziano. In ogni caso non è della Smith che qui vogliamo parlare. Ma
dei marziani e della possibilità, indagata oggi dalla sonda Spirit, che gli
extraterrestri esistano davvero. La cosa ha affascinato da sempre
l'immaginazione degli uomini e secondo lo storico Michael Crowe, dal tempo degli
antichi greci fino al 1917, sull'argomento sono stati scritti circa
centosettanta volumi. Persino l'astronomo olandese Christian Huygens, nel suo
Cosmotheoros, descriveva il carattere e la personalità di gioviani, saturniani e
mercuriali, mentre Keplero riteneva che gli abitanti della Luna avessero «un
corpo molto più grande e un temperamento molto più violento del nostro a causa
delle lunghe e calde giornate lunari». Immanuel Kant, poi, speculava sul fatto
che, visto che l'universo ha un centro e una periferia fissi, la natura degli
abitanti di altri pianeti dipenderebbe dalla posizione da loro occupata rispetto
al centro del cosmo: più raffinati gli esseri della periferia, più rozzi gli
altri.
Il fisico inglese Paul Davies, qualche anno fa, ha tenuto in Italia delle
lezioni, pubblicate da Laterza con il titolo Siamo soli?, sulle implicazioni
filosofiche della scoperta della vita extraterrestre. Uno dei punti di forza del
discorso di Davies si sviluppa a partire da questa domanda: quali sono le
condizioni perché sia possibile pensare come verosimile l'esistenza di
extraterrestri?
In primo luogo, se immaginiamo l'universo come infinito, la questione è di
veloce, ma non facile, soluzione. Infatti, scrive Davies, «è innegabilmente vero
che in un universo infinito e uniforme tutto quello che può succedere succederà,
e succederà un infinito numero di volte. Se c'è una probabilità finita, anche
minima, che una sequenza di eventi si verifichi, ed esiste un'infinità di luoghi
dove può realizzarsi, il tentativo riuscirà necessariamente un infinito numero
di volte. Questa è una semplice verità matematica, ma porta ad alcune bizzarre
conclusioni». Insomma, in un universo infinito, con infiniti pianeti e con
infinite molecole organiche, è matematicamente sicuro che esistano altri esseri
viventi su infiniti mondi diversi. Ma non solo, perché in un cosmo infinito di
questo tipo ci sarebbe veramente di tutto: anche, ad esempio, esseri viventi
completamente identici a noi che farebbero e penserebbero le nostre stesse cose.
Esisterebbero infiniti nostri doppi. E ogni istante della nostra vita sarebbe
ripetuto eternamente in qualche altra parte dell'universo. È la verità di
Spinoza e, se vogliamo, dello stesso Parmenide. Non ci sarebbe morte, né
mutamento. Tutto sarebbe eterno. Questo, naturalmente, se l'Universo fosse
infinito e uniforme. Ma se così non fosse le cose si complicherebbero
terribilmente e la possibilità di una vita extraterrestre sarebbe relegata a un
calcolo, più o meno oggettivo, di probabilità. Non solo, perché dal punto di
vista della teoria evoluzionistica, la possibilità di vita, e di vita
intelligente, su altri pianeti è praticamente uguale a zero. Il biologo Richard
Dawkins e lo scienziato Stephen Jay Gould, le due massime autorità del
darwinismo contemporaneo, sostengono infatti che il corso dell'evoluzione, che
ha fatto comparire e sviluppare la vita sulla Terra, non segue nessuna legge, ed
è un fenomeno in gran parte casuale. Tutto questo, naturalmente, rende di fatto
impossibile che la vita si sia affermata da qualche altra parte dell'universo
con la conseguenza che una possibile catastrofe in grado di distruggere la Terra
comporterebbe l'annullamento di ogni forma biologica presente nell'intero cosmo.
Nello stesso tempo, però, un eventuale successo della missione Spirit e
soprattutto del progetto portato avanti dalla Nasa e denominato Seti (Search for
Extra-Terrestial Intelligence) ribalterebbe completamente le cose e, come scrive
Davies, «minerebbe lo spirito, se non la lettera, del darwinismo ortodosso».
Quindi, nel tempo in cui alcune di queste questioni dovessero essere decise e
sperando che il pianeta Terra possa sopravvivere ancora a lungo, a livello
precauzionale, forse, non ci resterebbe che prendere qualche lezione. Chi vuole
di fisica, di biologia, di filosofia. Oppure, perché no, anche di marziano. «Evaï
diviné tès luné», siano felici questi giorni.
Il Riformista