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Nel maggio 2002 è
rimbalzata in Italia la notizia che un ricercatore inglese dell’università di
Newcastle, un certo Professor Chistopher Goulding, a seguito di uno studio sul
poeta filosofo Percy Bysshe Shelley, nonché marito della scrittrice Mary Shelley,
autrice del
celeberrimo romanzo "Frankenstein", abbia scoperto casualmente
l’identità del personaggio che fu d’ispirazione alla Shelley stessa per la
creazione del misterioso demiurgo-scienziato (sito Newton oggi).
La curiosa ed accattivante notizia, verificata da me presso
l’università di Newcastle, smentisce e rivoluziona quasi due secoli di credenze
consolidate che hanno portato milioni di lettori ed appassionati di fantascienza
a ricondurre la figura dello sperimentatore Victor Frankenstein ad un non
meglio identificato medico ginevrino.
Dagli studi del dottor Goulding emerge la figura del dottor
James Lind (1736-1812) che Percy Shelley conobbe ad Eton e di cui divenne amico.
Lind era un attempato signore, un vedovo che viveva in semi
isolamento nelle vicinanze di Windsor. Nato ed educato ad Edimburgo, aveva
viaggiato frequentemente in qualità di chirurgo di bordo in Africa, India e
Cina.
Agli occhi della società per bene di Windsor, Lind appariva un tipo
piuttosto eccentrico, immagine confermata anche dalle parole del figlio di
questi, Alessandro Lind, che rammentava, in maniera assai vivida, l’aspetto
dello studio d’alchimia del padre nella casa di famiglia:
" Vi
erano telescopi, batterie galvaniche, alambicchi, macchine elettriche e tutti
gli apparati di ricerca che si ritiene un filosofo debba
avere" .
Lind infatti era un filosofo naturale stimato ed apprezzato
con un forte interesse per gli ultimi sviluppi scientifici inerenti
all’elettricità e al suo possibile uso medico; fu Lind stesso infatti a
consigliare, alla famiglia reale inglese, di usare l’elettricità come un
tentativo possibile di cura per re Giorgio III, affetto da turbe psichiche.
Riguardo all’elettricità, Lind, nel suo laboratorio,
effettuava numerosi esperimenti, colpito particolarmente dall’elettricità
animale, ed da filosofo naturale, riconduceva a questa la probabile scintilla
che separa gli esseri viventi dai non viventi.
Lind-Frankenstein era amico,
conoscente e corrispondente della maggior parte degli scienziati del
diciottesimo secolo e così pure di filosofi e tecnologi, inclusi Benjamin
Franklin, David Hume e James Watt; possedeva una vastissima cultura e per un
giovane curioso e desideroso d’imparare quale era Percy
Shelley, intrattenervisi
in disquisizioni scientifiche era quanto mai interessante ed arricchente. Nella
postuma e frammentaria biografia del marito, Mary Shelley avrebbe in seguito
scritto che questi, ad Eton, era divenuto intimo di un uomo (Lind) che
menzionava solo nei termini di un rispetto tra i più teneri. Percy soleva dire:
<<Debbo
a quest’uomo, oh, molto di più di quello che io non debba a mio padre!>>.
Percy Shelley, spinto da questo affetto misto ad ammirazione,
immortalerà egli stesso, in versi, il Professor Lind, trasposto nel personaggio
di Zonoras, il saggio vecchio maestro del principe Atanasio:
" Il
principe Atanasio
Aveva un amico carissimo
Un vecchio, vecchissimo uomo
Con una capigliatura bianco-argentea
E labbra, dove raramente i sorrisi sarebbero apparsi
E si sarebbero mescolati con le sue sagge parole
E occhi la cui luce, simile a frecce, brillava come il
riflesso di migliaia di menti".
Questi studi e questi esperimenti, da una parte colpirono non
poco il giovane poeta Shelley (che successivamente ne effettuò di propri) ma
dall’altra "condizionarono" la fantasia letteraria, ancora in formazione, di
Mary, vissuta in questo particolarissimo ambiente, tra poetica, scienza e
filosofia. Non è sbagliato né difficile a questo punto dedurre come fosse quasi
scontato, per una giovanissima donna, che tali atmosfere respirava
quotidianamente, "usarle" in seguito come metafore "inevitabili" ai dissidi del
proprio mondo interiore; perciò, se da un conto oggi si delinea una figura
ispiratrice che grazie a Mary Shelley vive un nuovo motivo d’immortalità (Lind),
dall’altra si ripropone all’attenzione del mondo la personalità di un’autrice
originale ed emblematica, di una donna dell’ottocento inglese tanto geniale
quanto totalmente fuori dagli schemi femminili del suo tempo.
Mary Shelley è sì la fautrice di tutto un genere
horror-fantasy che da lei prese le mosse e a lei, ancora oggi, fa riferimento,
ma è corretto considerarla una figura che nella scienza del suo tempo seppe
leggere le istanze d’immortalità e quello spirito creativo da sempre presenti
nell’uomo.
CHRISTOPHER GOULDING
Christopher Goulding
è un affermato giornalista e scrittore, nonché attore, che vive a Newcastle,
vicino a Tyne, in Inghilterra.
I suoi crediti come attore includono ruoli da caratterista in
molti e rinomati spettacoli della televisione inglese e in teatri professionali
che includono, nel loro programma, anche commedie di Shakespeare.
Come scrittore ha al suo attivo diversi libri, inclusi
racconti per bambini e lavori sulla storia del Nord Est dell’Inghilterra.
La sua attività di giornalista lo ha visto impegnato su
argomenti di arte e cultura, in lavori accademici riguardo alla figura di Percy
Bysshe Shelley e altri scrittori del romanticismo inglese.
Goulding sta conducendo un dottorato di ricerca sui lavori di
Percy Bysshe Shelley presso il dipartimento di letteratura inglese e di
filosofia dell’università di Newcastle Tyne, università dalla quale egli ha già
ottenuto un dottorato in letteratura e un diploma di insegnante. Nella primavera
del 1999 ha scoperto una lettera inedita di Percy Bysshe Shelley oltre ad altra
corrispondenza, mai prima pubblicata, di Robert Southey, di Lord Byron e della
sua famiglia, riportate oggi in diverse pubblicazioni accademiche.
Persona estremamente cortese e di grandi entusiasmi per tutto
ciò che riguarda il suo lavoro, Christopher Goulding ha con piacere acconsentito
a riprendere con me alcuni temi relativi alla sua ricerca e alla sua scoperta
inerente al Frankenstein, da lui illustrata sulla rivista ufficiale del "The
Royal Society Medicine" inglese, nonché a rispondere ad una breve intervista
sull’argomento, frutto di uno scambio d’idee ed un incrocio di ricerche tra me e
il professore che ha caratterizzato non poco la mia estate.
M.C: Professor Goulding, la ringrazio innanzi tutto per la
disponibilità dimostrata a rispondere a qualche domanda in relazione al suo
lavoro di ricercatore letterario, attività i cui risultati interesseranno senza
dubbio i lettori italiani appassionati di fantascienza. Ci dica, da dove nasce
il suo interesse per la figura di Percy Bysshe Shelley e, conseguentemente, per
la coppia Percy-Mary?
C.G: La prego di prendere nota di non chiamarmi Professore,
mi chiami semplicemente Christopher, Christopher Goulding; ma veniamo alla
domanda, sto studiando la poesia di Percy Shelley per il mio dottorato in
filosofia e trovo l’argomento sempre più interessante e coinvolgente.
M.C: Nel nostro paese Mary Shelley è un personaggio, nonché
una scrittrice, molto amata ed ammirata, soprattutto dalle donne. Qual è la
reale dimensione popolare della sua figura nel suo paese d’origine specie presso
il mondo femminile inglese?
C.G: Si assiste ad un recente rinnovo d’interesse per l’opera
di Mary Shelley e ritengo ciò sia dovuto ad una generale rivalutazione del
lavoro femminile in campo letterario e filosofico di quel periodo, e meno male
perché per troppo tempo è stato scorrettamente ignorato.
M.C: Conosce o ricorda un aneddoto, un fatto che possa dare
una indicazione ai lettori di quale fosse l’animo e di cosa si "agitasse" nella
persona di Mary Shelley?
C.G: Penso che un dato d’enorme rilevanza sia il fatto che
Mary fosse figlia di William Godwin, un grande filosofo; questi ha probabilmente
risvegliato in lei, fin dalla più tenera infanzia, un profondo senso di spirito
umano e di aspirazione al superamento dell’apparente. Potrei dire che Mary si
cibò di pane e filosofia.
M.C: Può dirci qualcosa su questa correlazione tra la figura
del medico naturalista che ispirò nella Shelley il personaggio di Victor
Frankenstein?
C.G: Il mio collegamento tra lui e James Lind è riconducibile
ad un aspetto del carattere e della figura del personaggio di Victor
Frankenstein che è comunque troppo complessa perché le due figure, quella
ispirativa e il personaggio, siano coincidenti.
M.C: Perché, a suo avviso, il personaggio del mostro di
Frankenstein ha affascinato e continua ad affascinare generazioni così diverse
di lettori?
C.G: Il racconto nel suo complesso (e non soltanto la
creatura) continua ad affascinare perché si tratta di una storia che si può
adattare senza fine e si può riferire altrettanto bene sia ai nostri tempi che
all’inizio del diciannovesimo secolo, una storia eternamente moderna.
M.C: Come definirebbe e cos’è per lei "il mostro"? Ritiene
che in ognuno di noi s’annidi una doppia anima e quindi una dimensione
mostruosa?
C.G: Certamente, ciascuno di noi vi trova se stesso grazie ai
molti e differenti significati, adatto a diversificati lettori, ai diversi
"mostri", sia che si tratti o meno di ciò che intendesse Mary Shelley, di cosa
per lei fosse il mostro.
MARY SHELLEY FRANKENSTEIN
Il mostro di
Frankenstein è divenuto, fin dalla sua prima apparizione, uno dei testi
letterari più controversi ed analizzati. Il suo tema centrale, come già
suggerito dallo stesso Goulding, è infatti una metafora da sempre utilizzata ad
uso e consumo d’innumerevoli interpretazioni. Molte sono infatti le ideologie
che hanno inteso mettere questo "mostro" al proprio servizio: l’ideologia
Marxista, il femminismo radicale, la politica dei Verdi, e, più recentemente,
chi osteggia la biotecnologia e la genetica.
Indubbiamente ciascuna di queste rappresenta una possibile
chiave di lettura del Frankenstein ma ritengo che le motivazioni che spinsero
Mary Shelley a creare questo fantastico romanzo siano da ricercare altrove:
il mostro di Frankenstein era "dentro" a Mary Shelley e non perché lei fosse un
essere mostruoso ma perché nella sua vita, se la si legge attentamente, ella ha
potuto toccare con mano e sperimentare direttamente, ciò che turba intimamente
l’uomo e lo agita nel profondo; lei lo fa con una lucidità ed una efficacia
disarmante, non riuscendo però mai ad essere un’analizzatrice distaccata,
trascinata e congiunta invece indissolubilmente alle paure che la videro insieme
vittima e protagonista.
I riferimenti pseudo-scientifici che possiamo riscontrare nel
romanzo di Frankenstein sono tratti certamente dell’esperienza di Mary, dalle
sue frequentazioni, dagli interessi specifici del marito, da tutta un’epoca,
quella romantica dell’ottocento, colpita dagli studi scientifici
sull’elettricità del Volta e del Galvani e sulla sua possibile applicazione in
anatomia. Per lei comunque questi divengono solo un pretesto, un pretesto per
rimanere ancorata alla sua realtà e al suo tempo, poiché i motivi reconditi di
questa storia provengono, a mio avviso, da ben altro.
Per comprendere meglio
Mary Shelley e il suo Frankenstein è necessario perciò partire dalla sua vita se
non da ancora più indietro, dai suoni natali, dalle sue origini, ed è quello che
vi propongo di fare, un viaggio nel mondo di Mary senza però mai perdere di
vista i motivi che ci spingono ad intraprenderlo, motivi non strettamente
riconducibili ad una mera quanto facile ricerca biografica ma come un percorso
alla ricerca delle origini d’un mostro e alla nostra domanda originaria: chi era
Victor Frankenstein?
ALLE ORIGINI DEL MOSTRO
Qual è il significato
della parola mostro? Creatura che genera terrore, potremmo dire, ma se torniamo
indietro nel tempo, all’uso religioso del latino monstrum, prima della
caduta dell’impero romano, scopriamo che la parola mostro trae le sue origini
dal termine moneo, "far ricordare" o, nell’ambito del lessico
divinatorio, "avvertire". Qual è "l’avvertimento" che il Frankenstein
costituisce per Mary Shelley e che cosa le "fa ricordare"?
Mary nasce il 30 agosto 1797 dal filosofo William Godwin
che, come ci ricorda il professor Goulding, sicuramente incise sulla formazione
della figlia ma non è affatto da trascurare la figura della madre. E’ su di lei
che vi invito a focalizzare per un istante l’attenzione, poiché è con questa
donna e con la sua storia che "il mostro" inizia a covare dentro la nostra
autrice.
Mary Wollstonecraft (stesso nome che poi fu dato alla
Shelley, come con lo stesso nome oggi vengono ricordati sia lo scienziato
Frankenstein che la sua creatura, che di fatto nome non aveva), figura forte e
volitiva di donna, scrittrice e pioniera del femminismo, autrice della "Prima
Rivendicazione dei Diritti delle Donne", adorata ed ammirata dal marito, già
madre da una precedente unione di Fanny, muore 10 giorni dopo aver dato alla
luce la piccola Mary per un’infezione post partum. Questo evento, non certo
infrequente per l’epoca, segnerà tutta la vita di Mary che di quella morte si
sentirà sicuramente causa, se pur involontaria, e al contempo vittima. Il padre,
per dare una nuova madre alle piccole, si risposa nel 1801 con Mary Jean Vial
Clarmont ma questa decisione non sortisce l’effetto sperato in quanto, tra lei e
la matrigna, i rapporti non saranno mai sereni; l’unico conforto che le viene da
questa nuova unione paterna è la presenza in casa di una precedente figlia della
Clarmont (Claire) che amerà molto e che la seguirà, tragicamente, negli eventi.
La solitudine di Mary, una solitudine certo solo interiore in quanto casa Godwin
è frequentata dagli scrittori e dai filosofi del tempo, le è sempre compagna: la
madre, di cui ha tanto bisogno, non c’è, perché? E’ Fanny a farle da madre, una
sorella che è dovuta crescere troppo in fretta, anche lei colpita nell’intimo da
questo lutto. Nello stesso tempo due mostri nascono e convivono in lei, mostri
che naturalmente, a fasi alterne, odia e adora, se stessa e la madre.
Successivamente all’11 novembre 1812, quando ad una cena in
casa sua conosce il giovane poeta Percy Shelley, intervenuto con la moglie
Harriet, Mary s’innamorerà riamata: questo segnerà l’avvento di nuovi "mostri",
nuovi "motivi" di mostruosità s’affacceranno nell’io della donna. Ama un uomo
sposato, la moglie di lui è al contempo vittima e ragione di sofferenza, lui
l’ama ma nello stesso tempo, pur essendo il più maturo dei due (Mary ha soli 15
anni) non ha la "forza morale", richiesta dal tempo, di fermare gli eventi; il
padre di lei, unico suo punto di riferimento, la giudica aspramente negandole
aiuto ed affetto, stessa
cosa per il padre di Percy…..Fuggono insieme il 28
luglio 1814, l’amore trionfa?
"La
prima volta che feci l’amore con Percy fu sulla tomba di mia madre"
dice nel suo diario, rito che può apparire macabro ma che la dice lunga sulla
natura di questo amore.
L’amore per Percy l’avvicina alla scienza del tempo, agli
astri nascenti della letteratura e della filosofia, all’esoterismo di cui il
marito e la cerchia di amici sono affascinati, alla ricerca continua di un
rapporto diverso con la natura e gli elementi soprannaturali, sarà il motivo del
divenire, essa stessa, una grande scrittrice ma nei soli otto anni in cui i due
saranno insieme, tutto verrà bruciato, vissuto intensamente, tragicamente.
In
una lettera di Mary alla sorella si legge:
" Non
è trascorsa una primavera senza una qualche disgrazia per noi".
Ancora bambina lei stessa, avrà tre gravidanze successive, e in tutti e tre i
casi la creatura morirà (solo il quarto figlio le sopravviverà); dolore
terribile e straziante, stavolta però non è la genitrice a perire ma i
nascituri, un sopravvivere difficile da sostenere; la sorella Fanny si suicida,
la moglie di Percy s’annega nel Serpentine, un fiume di Hyde Park e "grazie" a
questa morte, nel tentativo (fallito) di Percy d’ottenere la custodia dei figli,
i due potranno sposarsi; muore in tenerissima età anche l’adorata nipote, figlia
dell’amata sorellastra Claire (ormai pazza) che con lei è fuggita divenendo
amante di Byron; Mary e Percy vivono una situazioni economica disastrosa, col
solo sostegno di qualche amico; lo segue nelle sue scelte e nei suoi viaggi
senza sosta, anche in Italia, anche a Lerici, posto che il marito predilige ma
che lei non sopporta; nei due il peso di questi eventi si fa sentire come un
macigno e accresce il loro stato depressivo; Mary assiste pure al rapido
disamorarsi del marito e al suo tradimento con la compagna dell’amico Edward
Williams con cui dividono l’abitazione e subisce la sua perdita proprio nel mare
di quella Lerici, nel golfo che per la loro frequentazione sarà ribattezzato
"Dei Poeti" che lei odia tanto.
Qui, circondata dagli amici di sempre, si
consuma l’ultimo rito di questa storia: il corpo di Percy senza vita, bruciato
in un rogo sulla spiaggia di Viareggio, il cuore dell’uomo estratto e
conservato, debitamente incartato, tra i suoi manoscritti e le sue poesie.
Alcune delle cose da me citate accaddero
certo dopo la stesura del Frankenstein
ma quante di queste cose mostruose lei ha rivisitato interiormente, nel tempo,
come un "avvertimento"? Cosa di tutto questo le rimarrà da "ricordare"?
" Avevo
25 anni allora e la mia vita seguente altro non fu che un sopravvivere".
Il ritorno in Inghilterra e la memoria, i debiti, la
responsabilità di crescere da sola un figlio, tramutano Mary in una donna in
apparenza conformista, caduta in disgrazia e circondata da avvoltoi.
Amaro destino quello di Mary: il passato non le verrà mai
perdonato dai moralisti così come gli intellettuali non approveranno il suo
presente.
Gesualdo Bufalino, a proposito del Frankenstein, così si
pronunciò:
" Quanti
immortali hanno di vulnerabile molto più del calcagno. E come stupidamente cede
l’uomo alla suggestione prometeica di copiare il loro povero privilegio
creativo. Il Frankenstein ci insegna almeno due cose: che nessun padre, minimo o
massimo, crea impunemente a propria immagine e somiglianza e che in ogni creta
d’Adamo veglia un veleno originale di rancore e di rivolta".
Quanto desidera Victor Frankenstein la creazione della sua
creatura? Per lui diviene una vera ossessione, una pulsione irrefrenabile.
Victor genera un’ambigua relazione tra se stesso, lo scienziato-creatore, e la
sua "opera", il mostro tanto desiderato in cui vede la possibilità di colmare la
sua finitudine e di vincere la morte si tramuta poi in "altro" rispetto al
creatore, sfugge di mano, diviene "antagonista".
La sua vita, nonché la sua avventura sentimentale e
letteraria, si articolò come un susseguirsi di fatti che la Shelley vivrà come
"un avvertimento", l’avvertimento che ciò che è perso non potrà ritornare,
l’avvertimento che ciò che si desidera, spesso, non solo comporta dolore ma
genera attorno a sé una serie di conseguenze impreviste, come ricaduta alle
proprie scelte, che la "fan ricordare", così come il ricordo di dolori e
rimpianti indicibili le causano, al tempo stesso, il bisogno assoluto che
qualcosa da lei "si crei", che qualcosa da lei "rinasca".
Ecco di nuovo "l’avvertimento", ecco il "far ricordare", ecco
ancora "il mostro".
"Allora
la finzione non punta verso mondi fantastici, ma deforma il nostro perché i suoi
nessi e le sue misure, strappati ai loro ingannevoli equilibri, ci appaiano in
una brutalità rivelatrice: invece di proporre mondi possibili, presenta il
nostro come un mondo impossibile.
Che inventi o che deformi, la finzione misura sempre il reale
col suo stesso staccarsene, lo precisa da una lontananza che è istituzione di
prospettive nuove e inusitate, lo sollecita al limite del capovolgimento"
CESARE SEGRE
Fin qui abbiamo potuto intuire due aspetti della genesi del
Frankenstein, uno riconducibile ad un’ispirazione di tipo
scientifico-esperenziale:
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chi era Victor Frankenstein? Un filosofo-scienziato
naturalista inglese di nome James Lind. |
Uno assimilabile ad una condizione psicologico-esistenziale:
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chi era Victor Frankenstein? La stessa Mary Shelley, in un gioco d’alternanza
tra creatore e creatura. |
Esiste però un terzo aspetto che non è da trascurare
per comprendere a 360° l’origine del Frankenstein, di questo fantastico romanzo
di cui tutti conosciamo la storia, soprattutto tramite le diverse trasposizioni
cinematografiche che di fatto ne hanno distorto la trama, ingenerando nei
fruitori un’idea non coincidente con la storia così come Mary Shelley la ideò; è
l’aspetto casuale, che fuso con quello onirico e mitologico, con le letture
predilette e le abilità narrative di Mary, costituiscono le rimanenti tessere
dell’intero puzzle, quelle fonti e quelle capacità che fanno di un uomo
"qualsiasi" uno scrittore ispirato:
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chi era Victor Frankenstein? Un incredibile
personaggio di fantascienza. |
CASUALITA’ E GENIO
Il caso, l’opportunità;
sì, c’è anche questo all’origine del Frankenstein.
E’ il giugno del 1816, Mary trascorre l’estate a Chapuis, in
Svizzera, sulle rive del lago di Ginevra e molto spesso, con Percy, si reca alla
vicina Villa Diodati, villa che l’amico George Gordon Byron ha preso in affitto
per le vacanze estive.
Così fu anche il 16 giugno, quando, un tempo
improvvisamente tempestoso, e che sarebbe rimasto tale per diversi giorni,
costringe la coppia ad accettare l’invito del Byron a soggiornarvi.
Durante la prima serata si trovano riunite quattro persone:
Mary, Percy, Byron e John Polidori, psicologo personale del padrone di casa. Per
ingannare il tempo leggono a turno, a voce alta, delle novelle tedesche tratte
dal "The Fantasmagoria". Una di queste, una sorta di Decamerone dell’orrido,
narra di un gruppo d’amici che si riunisce per raccontarsi vicendevolmente le
proprie esperienze, quelle più strane, soprannaturali. Byron, ispirato da questa
vicenda, propone agli ospiti un gioco, un gioco che potrebbe essere definito il
primo concorso letterario di fantascienza della storia: ciascuno di loro avrebbe
inventato una vicenda terrificante e, ad insindacabile giudizio del gruppo
votante, si sarebbe poi scelta la migliore. Mary accoglie con entusiasmo la
sfida ma anche con molta serietà, c’è già in lei un’abilità letteraria in
incubazione mai espressa fino a quel momento. Cerca un’ispirazione: il suo io è
gonfio di "orrido", non attende altro che palesarsi.
I sogni di Mary e la sua triste esperienza giocano un ruolo
di primo piano in tutto ciò; è tramite l’aspetto onirico che Mary prenderà
coscienza come la storia non è lontana dall’affiorare, passando dall’inconscio
al conscio; ha appena avuto il suo secondo bambino (che per altro non
sopravvivrà a lungo), il primo è morto da appena un anno. A tal proposito il 19
marzo 1815 scrive nel suo diario:
" Ho
sognato che il piccolo tornasse di nuovo alla vita, che aveva soltanto preso
freddo e che lo abbiamo massaggiato presso al fuoco fino a che ha ripreso vita".
C’è in lei il desiderio di vincere la morte, che questo non sia solo un’utopia
legata alle mere ipotesi scientifiche del tempo basate sull’elettricità ma è
cosciente di quanto mostruoso e contro natura sia tale desiderio.
Cosa fa Victor
Frankenstein la notte in cui risvegliò il mostro? Sogna. Mary così gli fa dire:
"Alla
fine, la stanchezza succedette al tumulto iniziale e mi gettai sul letto
vestito, cercando qualche momento di oblio. Ma invano: dormii, per la verità, ma
fui turbato dai sogni più strani. Credetti di vedere Elizabeth, fiorente di
salute, a passeggio per le strade di Ingolstadt; felice e sorpreso,
l'abbracciavo; ma mentre le davo il primo bacio sulle labbra, esse diventavano
livide, del colore della morte; i suoi tratti sembravano trasformarsi, e io
credevo di tenere tra le braccia il cadavere di mia madre morta; un sudario
avvolgeva il suo corpo e vedevo i vermi brulicare tra le pieghe del tessuto. Mi
svegliai di soprassalto, pieno di orrore; un sudore freddo mi copriva la fronte,
battevo i denti e tremavo convulsamente in ogni parte del corpo, quando alla
luce fioca e gialla della luna che penetrava a fatica dalle persiane chiuse, mi
vidi davanti il disgraziato, il miserabile mostro che avevo creato".
Eppure Mary non ha ancora palese la sua opera; il giorno dopo
è di nuovo il caso a darle un "avvertimento". Essendo tutti riuniti, Byron
recitò una poesia di Coleridge, "Christabel", la cui protagonista è una giovane
criminale. Percy si getta in una plateale rappresentazione della stessa, ponendo
Mary come l’ideale criminale della storia. Ciò che appare divertente agli altri,
è vissuto, nell’intimo della giovane, come una delusione dall’amato, e al
contempo accresce quei sensi di colpa che internamente vive, sensi di colpa
tutti ravvisabili nel Frankenstein. Riguardo alla sfida letteraria, Percy
l’abbandona molto presto, Byron scrive un racconto dal titolo "Un frammento", di
scarso valore, mentre Polidori ideò "Il Vampiro", uno dei primi romanzi di tal
genere, e Mary? Per giorni, pur riflettendo, non riesce ad impostare una storia
così come avrebbe voluto e il caso ispiratore si ripresenta il 21 giugno, quando
ascolta una discussione intercorsa tra Percy e Byron su un pezzo scritto da
Madame De Stael e che parla "del principio della vita che potrebbe essere
scoperto e degli scienziati che avrebbero potuto galvanizzare un corpo umano
ricostruito" letto nell’Allemagne e, la notte del 22, quando fa un ulteriore
sogno, un vero incubo in cui:
" Vidi
uno studente pallido inginocchiato dietro alla cosa che aveva costruito. Vidi il
fantasma orribile di un uomo che si allungava mentre alcuni potenti macchinari
si stavano muovendo. All’improvviso la cosa dette segni di vita, e lo studente
spaventato corse via mentre quella cosa aveva già aperto gli occhi ed era già
riuscita ad alzarsi e a camminare con le sue gambe".
Tutto ormai è chiaro agli occhi di Mary, la storia prende forma, storia che lei
inizia a scrivere proprio con questo episodio che costituisce il quinto capitolo
del romanzo, portato a termine nel 1817 e pubblicato per la prima volta nel 1818
in forma anonima, per le preoccupazioni della Shelley riguardo ai giudizi severi
del tempo.
"Io
mi detti molto da fare a pensare una storia…che parlasse delle misteriose paure
sepolte nella nostra natura e che risvegliasse brividi di terrore"
così si legge nella prefazione del "Frankenstein o Il
moderno Prometeo" dell’edizione 1831, prefazione vergata di suo pugno, autrice
che finalmente si manifesta, dopo l’enorme successo riscosso dal romanzo, senza
più il timore dei pregiudizi moralistici. Da sempre letteratura e psicoanalisi
si sono incrociate.
Freud stesso sosteneva come i poeti e i filosofi avessero
scoperto l’inconscio prima di lui:
"Sono
i pochi cui sia concesso, quasi senza sforzo, di salvare dal gorgo delle
emozioni le più profonde verità verso cui noi altri dobbiamo dirigerci con
fatica, annaspando incessantemente in mezzo ad incertezze torturanti".
In questo la Shelley risulta una maestra
indiscussa e per farlo mette in gioco se stessa, si lascia ispirare dai suoi
sogni, dai suoi incubi, e se è vero che i miti sono la storia dell’uomo
rivisitata in chiave onirica, come non poteva diventare un mito indiscusso della
moderna letteratura una vicenda come il Frankenstein, frutto degli incubi di una
donna triste e sensibile, figlio diretto di un mito ben più antico, quello di
Prometeo, generato a sua volta dal sogno dell’uomo di dominare la natura e di
conoscerne i misteri? Il mito di Prometeo era ben conosciuto da Mary Shelley che
aveva una vasta e profonda cultura, un mito ripreso da tutti i maggiori
pensatori dell’antichità.
Tra le fonti classiche da enumerare, per comprendere
appieno perché la Shelley se ne servì nella sua opera, in cui tradizione e
modernità s’incrociano, possiamo ricordare quella di Esiodo tratto da "Le opere
e i giorni":
"Gli
dei tengono nascosto agli uomini ciò che è necessario alla loro vita;
facilmente, infatti, se non fosse così, e in un giorno solo,
ti procureresti ciò
che ti serve magari per un anno intero e senza lavorare.
E subito appenderesti
il timone e abbandoneresti il lavoro dei buoi e delle mule pazienti.
Ma Zeus
nascose ciò che è necessario alla vita degli uomini, sdegnato nell’animo, perché
Prometeo, dalla mente astuta, l’aveva ingannato. A causa di ciò, Zeus progettò
luttuosi affanni per gli uomini e nascose loro il fuoco. Tuttavia, il figlio di Giapeto lo rubò, a sua volta, a favore degli uomini, a Zeus sapiente
sottraendolo in un cavo nartece di nascosto dal dio fulminatore.
Ma Zeus adunatore di nubi sdegnato gli disse: "Figlio di Giapeto, tu che sei il più
ingegnoso di tutti, ti rallegri per aver rubato il fuoco e per avermi ingannato,
ma così hai procurato un grave danno a te stesso e agli uomini che verranno. A
loro, infatti, in cambio del fuoco, darò un male, di cui, però, tutti si
rallegreranno nell’animo festeggiando la loro stessa sciagura".
E Platone in "Protagora":
" Vi
era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Dopo che fu
giunto anche per le stirpi mortali
il fatale momento della nascita,
gli dei ne
fanno il calco nel cuore della Terra,
mescolando terra e fuoco e tutti quegli
elementi,
che sono composti di terra e fuoco.
E in procinto di portare alla luce
quelle stirpi, diedero ordine a Prometeo e a Epimeteo di distribuire in modo
equo le facoltà naturali.
Epimeteo chiede a Prometeo di lasciare a lui stesso la
cura della distribuzione: "e quando avrò compiuto la mia distribuzione, allora
tu controllerai", dice.
E così, dopo averlo convinto, inizia a distribuire
(...).
Solo che Epimeteo, la cui sapienza era incompiuta, senza rendersene
conto,
aveva consumato tute le facoltà naturali per gli esseri privi di ragione,
mentre doveva ancora provvedere al genere umano e quindi non sapeva più come
venirne fuori.
Ma proprio mentre si trovava alle prese con tali difficoltà,
giunse Prometeo per controllare la distribuzione e vede che tutti gli altri
esseri viventi dispongono armoniosamente di tutto ed al contrario l’essere umano
è nudo, scalzo, privo di riparo per la notte e di armi.
Era ormai imminente il
giorno fatale, in cui l’uomo sarebbe dovuto uscire dal buio della terra alla
luce, cosicché Prometeo, trovandosi in grave difficoltà riguardo alla salvezza
dell’uomo,
ruba ad Efesto e ad Atena la sapienza tecnica (éntechnos sophia)
assieme con il fuoco - perché senza il fuoco sarebbe stato impossibile
acquisirla e servirsene - e ne fece dono all’uomo.
L’uomo, perciò, ebbe così la
scienza della vita, ma non ancora la scienza politica".
Ma è soprattutto con Eschilo, nel "Prometeo incatenato"
che ritroviamo tutto il tormento di un "sovrumano sofferente" per aver sfidato
le leggi degli Dei:
" Come
fu stabilito sul trono di suo padre, subito agli dei distribuì i vari privilegi,
dividendo fra tutti il governo; ma degli infelici mortali non tenne alcun conto:
tu la specie voleva distruggere, e crearne una nuova. E nessuno gli si opponeva.
Io solo, io solo osai; e
sottrassi i mortali al pericolo di scendere tutti,
distrutti, nella casa di Ade. Per questo son piegato da tali pene, dolorose a
chi le soffre, pietose a chi le vede soffrire.
Pieno di compassione per i
mortali, compassione non ho trovato per me! e ora
così spietatamente sono
incatenato, spettacolo d’infamia per Zeus".
(...) "- Ma forse hai fatto qualche altra cosa rispetto a quello che hai detto?
- Ho tolto ai mortali l’angoscia della morte
- Quale rimedio hai trovato all’angoscia?
- Le cieche speranze ho posto fra loro
- Grande dono hai fatto ai mortali
- E inoltre ho loro donato il fuoco
- E ora la vampa del fuoco i mortali possiedono?
- Sì, e molte arti con esso apprenderanno
- Allora per questo Zeus t’accusa...
- Per questo, sì, mi tormenta in tal modo e non allenta i mali.
- Né alcun termine è stabilito alla tua pena?
- Nessun termine, se non quando vorrà
- E quando mai vorrà? Quale speranza? Non vedi che hai peccato?
Che hai peccato,
e a me spiace dirlo e a te è doloroso sentire.
Ma di questo più non parliamo.
Cerca piuttosto di liberarti da queste tue pene
- Facile è, per chi è fuori da ogni male, esortare e rimproverare chi soffre.
Io
tutto questo sapevo, e volendo, volendo ho peccato, non lo voglio negare.
Volevo
aiutare i mortali e ho trovato da me le mie pene".
Geniale il modo in cui la Shelley ha saputo trasporre
l’antico mito nella sua opera: Victor Frankenstein incarna la figura di un
"Novello Prometeo" figlio del suo tempo; essendo scienziato dell’ottocento,
erede della tradizione degli anatomisti trafugatori di salme nei cimiteri, ha
una visione meccanicistica del corpo, si entusiasma nei confronti
dell’elettricità, opera su basi materialistiche; senza il ricorso alle forze
soprannaturali (allontanandosi dall’antico mito), rende l’umanità padrona del
segreto della vita e della morte ma non riesce in ogni caso a controllare la sua
creatura né a prevederne le azioni e perciò le conseguenze; genera qualcosa che
si ribella al creatore rivendicando per sé il giusto libero arbitrio (e
riaffiora il mito). In tal modo Mary Shelley ci presenta con schiettezza la
dicotomia dell’uomo che è sì ragione ma anche altro, intuizione che farà dire
successivamente allo stesso Freud che: "Noi non siamo padroni in casa nostra".
Il caso, l’aspetto onirico, la conoscenza e l’uso sapiente ed
originale del mito di Prometeo… a nulla sarebbero serviti se in Mary Shelley non
ci fosse stata una profonda abilità linguistica (lei che scriveva per diletto e
solo per se stessa fin da bambina), una variegata conoscenza letteraria
scaturita dalle letture giovanili (in casa paterna e successivamente) e che usò
nella stesura del Frankenstein: Le Metamorfosi d’Ovidio, I dolori del giovane
Wherter di Goethe, Il Paradiso Perduto di Milton, letto in famiglia e poi
ascoltato da Percy proprio mentre scriveva il romanzo, quel Milton che aveva
prediletto, come Rosseau e Voltaire, i soggiorni sul lago di Ginevra, quel lago
che la vide novella scrittrice e zona da lei stessa considerata "consacrata
all’illuminazione", e chissà quanti altri. Tutto si mescolò come le carte di in
un ipotetico mazzo affinché la storia, l’esperienza e la conoscenza si
tramutassero in letteratura e della più "illuminata".
Le ultime considerazioni
pubbliche di Mary sulla sua opera sono un’immensa dimostrazione d’amore della
stessa nei confronti sia dei suoi personaggi che dell’uomo amato e perso così
tragicamente che pur essendo frutto e causa di tanto dolore ed essendo stati
giudicati con severità dagli uomini del tempo, lei protegge e difende contro
tutti:
"All’inizio
pensavo a poche pagine, un racconto breve; ma Shelley mi spronò a sviluppare e
ad ampliare l’idea. E ora, ancora una volta, chiedo alla mia mostruosa progenie
di andare per il mondo augurandole buona fortuna. Nutro un certo affetto per lei
perché è la creatura di giorni felici. Le sue pagine parlano di tante
passeggiate, gite in carrozza quando non ero sola, e mi era compagno colui che
non rivedrò più a questo mondo. Ma ciò riguarda solo me: i miei lettori non
hanno nulla a che spartire con queste associazioni d’idee".
L’augurio di Mary non
poteva sortire migliori auspici se ancora oggi, al di là di Mary Shelley e delle
sue ispirazioni, si continua a parlare di Victor Frankenstein come di un mito
rimasto vivo ed indenne: se ne traggono film, fumetti, musiche, innumerevoli
saggi, slogan (Frankenstein food ad esempio), è da ispirazione per nuove opere
letterarie, è bandiera per numerose "crociate".
Poiché "vivo":
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chi è allora Victor Frankenstein? La metafora
della vita stessa e della sua ambivalenza. |
Di fronte a Victor Frankenstein e alla sua creatura
ciascuno di
noi ritrova, come riflessi in uno specchio, i propri mostri
interiori, le proprie ansie e le proprie inquietudini, ravvisa quei mostri della
società attuale che vorremmo cancellare, che pensiamo alla base di tutti i mali,
mali da noi stessi creati ma di cui troppo tardi abbiamo compreso l’errore e
l’orrore e agli occhi della Shelley, genitrice che senza vergogna sa palesarsi,
consapevolmente o inconsapevolmente, come madre e matrigna, figlia e figliastra,
identica cosa dovettero apparire le sue creature, figli "mostruosi" che nel bene
e nel male sono al contempo immagine di sé, di ciò che attorno a sé ruotava e
del suo sconfinato genio letterario.
© Margherita Campaniolo
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