Nell'ultimo numero della rivista Science viene avanzata l'ipotesi
che la nostra galassia avrebbe una «zona abitabile» oltre al nostro
sistema solare. Un'équipe di astronomi australiani avrebbe identificato
una precisa area della Via Lattea dove la probabilità di trovare vita
extraterrestre sarebbe non trascurabile. In particolare ci sarebbe una
maggiore probabilità in quella zona di trovare pianeti solidi e di media
grandezza con caratteristiche simili a quelle della Terra o di Marte e
quindi adatti ad ospitare la vita. Che la vita si sia lì effettivamente
sviluppata è chiaramente ancora da dimostrare, ma già il fatto che sia
possibile trovare nella nostra stessa galassia dei pianeti simili alla
Terra, ha comunque delle forti implicazioni sul nostro ruolo nel cosmo.
Una possibile implicazione dell'esistenza di molti pianeti simili alla
Terra riguarda il cosiddetto Principio Antropico introdotto
ufficialmente dall'astronomo Brandon Carter nel 1974 anche se il
dibattito sul posto dell'uomo nell'Universo e sul fine della creazione è
chiaramente molto più antico. Il Principio Antropico nella sua versione
"forte" sostiene che: «L'Universo (e quindi i parametri fondamentali da
cui esso dipende) deve essere tale da ammettere la creazione di
osservatori al suo interno in qualche stadio dell'evoluzione».
Questa versione del Principio Antropico si basa sull'osservazione che,
variando di poco il valore di una delle costanti fondamentali della
natura (carica elettrica, costante di gravitazione, rapporto fra la
massa dell'elettrone e massa del protone, ecc.) oppure i valori di altre
quantità caratteristiche del nostro universo o del nostro sistema solare
(velocità di espansione delle galassie, età dell'universo, luminosità
del sole, distanza Terra-Sole, presenza di atmosfera, strato di ozono,
ecc.), non sarebbe stata possibile l'evoluzione di forme di vita basate
sul carbonio come la nostra. Siccome la coincidenza che le costanti
fondamentali assumano pro prio i valori che non ostacolano l'evoluzione
è tanto improbabile quanto indovinare la combinazione giusta di una
lotteria, si è portati a pensare che quella sequenza di numeri sia stata
in qualche modo "preordinata'' per il raggiungimento di uno scopo.
Osserva Hawking nel suo libro Dal Big Bang ai buchi neri: «Il
fatto degno di nota è che i valori di questi numeri sembrano essere
stati esattamente coordinati per rendere possibile lo sviluppo della
vita.»
Ma Carter fa di più. In un articolo del 1983 dimostra che, nonostante le
leggi della fisica siano tali da consentire la produzione della vita, la
probabilità che essa realmente si sviluppi è ancora bassissima perché
l'evoluzione della specie richiederebbe l'accadere di una serie di
eventi altamente improbabili. Egli connette il numero N di passi
"improbabili" nell'evoluzione dell'Homo Sapiens, alla durata
dell'esistenza di un sistema come quello solare in grado di ospitarlo e
al tempo necessario a produrre una specie intelligente su un pianeta
come la Terra. È stato stimato, infatti, che una stella come il nostro
Sole può mantenere condizioni favorevoli alla vita su pianeti come la
Terra solo durante l'intervallo di tempo T in cui brucia l'idrogeno, che
dura circa dieci miliardi di anni.
Con un po' di calcolo delle probabilità Carter stima che un sistema come
quello solare, dopo che si sia evoluta una forma di vita intelligente,
continuerà ad esistere per un tempo pari a T/(N+1). Dal dato
sperimentale che la nostra evoluzione è stata completata in un
intervallo di tempo di circa cinque miliardi di anni, Carter fu
costretto a concludere che N=1 (o al massimo 2). In seguito, Barrow e
Tipler (nel loro libro Il Principio Antropico cosmologico,
recentemente tradotto anche in Italiano), stimarono che l'evoluzione
richiede un valore di N molto più grande che escluderebbe l'esistenza di
esseri extraterrestri. La Terra sarebbe un caso più unico che raro e
nell'universo esisterebbe un solo pianeta ab itato.
Portando il ragionamento di Barrow e Tipler alle sue estreme conseguenze
si comprende, però, che la maggior parte dei pianeti attorno a stelle
come il Sole sarebbero distrutti molto prima o appena dopo il tempo
necessario all'apparizione della vita intelligente. Può la formula di
Carter essere un argomento non solo contro l'esistenza di intelligenze
extraterrestri, ma, in fondo, anche contro la nostra stessa esistenza?
Se il calcolo di Carter è esatto, non esisterebbe nell'universo nessun
pianeta abitato a meno di supporre che la Terra abbia qualche proprietà
speciale rispetto al resto dell'Universo.
D'altra parte, è un fatto sperimentale che noi esistiamo e quindi ci
deve essere qualcosa di cui Carter non ha tenuto conto nel suo calcolo
probabilistico. Egli non ha considerato l'abbondanza della creazione. Se
esistono nell'universo centomila, un milione o più pianeti abitabili, e
ciò sembra oggi avvalorato dall'articolo apparso su Science,
aumenta la probabilità che su almeno uno di essi i passi dell'evoluzione
si siano potuti verificare tutti.
A distanza di quindici anni dall'articolo di Carter, il calcolo
probabilistico, con questa nuova ipotesi, è stato eseguito per la prima
volta nel dettaglio da me e dal collega Salvatore Rampone nel 1998
(quando l'indagine sui pianeti intorno ad altre stelle era ancora
all'inizio) e dimostra che, persino con un numero grande N di passi
evolutivi, la probabilità della vita intelligente è non trascurabile.
È un fatto sperimentale che l'evoluzione sia legata ad una serie molto
lunga di passi, ciascuno dei quali avente una probabilità molto bassa di
realizzarsi e Carter ha stimato che non basta che le leggi della fisica
favoriscano l'avvento della vita intelligente perché essa appaia
realmente. Potremmo però pensare che l'esistenza di un grande numero di
pianeti come la Terra sia il trucco utilizzato dall'evoluzione per
bilanciare il numero di passi improbabili.
Se l'organizzazione dell'universo secondo leggi sottende uno scopo e
questo è la nascita, ad un certo punto dell'evoluzione, dell'Homo
Sapiens (Principio Antropico), allora l'estensione e l'abbondanza
della creazione (e quindi dei pianeti abitabili di cui parla Science)
sarebbero ingredienti fondamentali per completare la strategia
finalistica.
*Ricercatore Università del Sannio
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