Per giungere ai
nostri occhi la luce della Luna, «solinga, eterna peregrina», impiega
poco più di un secondo; quella del Sole otto minuti circa; quella di
Titano un’ora. Questi numeri danno l’idea di quanto lontano è riuscito a
spingersi l’uomo, inviando una capsula telecomandata a «ficcare il naso»
nelle cose di questo scontroso satellite di Saturno, il pianeta degli
anelli. La sonda madre, Cassini, ha dovuto viaggiare per ben più di un
miliardo di chilometri per andare a posizionare la capsula Huygens in
vista di Titano e Huygens si è andata poi a posare con dolcezza su
questo remoto corpo celeste.
«Dal legno storto dell’umanità
non si è mai cavata una cosa dritta» dice Kant. Non
c’è dubbio; ma ne ha fatte di cose questo legno storto! Ha inviato
qualcuno sulla Luna, si è sillabato il proprio genoma, ha mandato un
mezzo cingolato su Marte e adesso un ragnetto portante una
ricetrasmittente su Titano, oltre a creare cose meravigliose come il
quartetto con pianoforte K478 che sto ascoltando. Se l’uomo singolo è
nella sua essenza un grumo di contraddizioni, il collettivo umano quando
vuole riesce a fare cose da lasciare di sasso.
La superficie di Titano sembra una versione on the rocks , 180 gradi
sotto zero, di quella che doveva esserci sulla nostra Terra prima che
sbocciassero le prime forme viventi. Qualcuno pensa che queste
potrebbero essere le condizioni ideali per l’originarsi di forme di
vita. E questa volta ci sarebbero degli spettatori interessati: ci
saremmo noi. Non so se sia vero, ma è una prospettiva eccitante.
A renderla ancora più eccitante c’è la registrazione sonora, in diretta,
che ci offre un silenzio agghiacciante rotto da qualche tuono. Il famoso
esperimento di Miller di cinquant’anni fa mostrò come si potessero
generare in laboratorio aminoacidi e anche qualche nucleotide facendo
passare una scarica elettrica attraverso una miscela di gas molto simile
a quella presente su Titano oggi e forse sulla Terra quattro miliardi di
anni fa. Se oltre al tuono ci fosse qualche fulmine, avrà pensato
qualcuno, chissà che non si ripeta il miracolo della formazione di
molecole organiche. Da qui alla vita, il passaggio potrebbe poi essere
breve.
Tutta l’eccitazione dei mesi scorsi per aver individuato tracce di acqua
nel passato di Marte, era motivata dalla possibilità che anche sul
pianeta rosso ci sia stata un tempo la vita. Certo, per Marte è
probabilmente tardi, mentre per Titano è troppo presto, ma l’idea di
incontrarsi prima o poi con qualche forma di vita sembra un po’
un’ossessione dei progettisti di imprese spaziali. E chissà che non
succeda...
L’incontro con una forma di
vita aliena, magari intelligente, è stato un tema
obbligato della fantascienza. Non credo però che nessuno ci abbia mai
pensato veramente. Sembrava e sembra troppo lontano, ma sarebbe un modo
eccezionale di rispecchiarsi e confrontarsi, sarebbe un modo di
ottemperare al comandamento «Conosci te stesso!» guardando fuori, invece
che guardandoci dentro. Mi vengono i brividi solo a pensarci.
Come mi vengono i brividi a guardare fuori della finestra, in questo
uggioso pomeriggio di nebbia. Qui non si vede al di là della strada,
mentre ci arrivano da un’ora-luce di distanza le immagini della
superficie di Titano. E non c’è contraddizione. Le cose quaggiù sulla
Terra sono nebbiose, umidicce, incerte, complesse e contorte, perché
queste sono le condizioni per la vita. Lo spazio è puro e adamantino:
non ci sono attriti, resistenze viscose e fastidiose mucillagini. Ma se
qualche corpo celeste vorrà un giorno ospitare la vita, dovrà anch’esso
scendere a compromessi, sporcarsi e problematizzarsi. Per condurre
magari alla comparsa di altri giunchi pensanti, che, sono pronto a
scommettere, saranno anche altri legni storti. Oppure puri cristalli.
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