Funziona senza sosta
da oltre trent’anni la «grande radio» accesa sull’Universo per captare
le voci di un’eventuale civiltà extraterrestre. Si tratta di una rete di
radiotelescopi dislocati in tutto il mondo. Il programma si chiama
«SETI», «Search for extraterrestrial intelligence», cioé ricerca di
forme di intelligenza extraterrestre. È un programma avviato negli Usa
dalla Nasa negli anni Settanta. Ma le reali osservazioni radio sono
iniziate solo nel 1992.
Si basa sull’uso di grandi radiotelescopi che passano al setaccio le
microonde provenienti dallo spazio alla ricerca di segnali radio emessi
da eventuali civiltà extraterrestri. Il programma, sospeso dal Congresso
americano nell’ottobre 1993 per carenza di fondi, è ora gestito dal Seti
Institute che opera sulla base di contributi volontari da parte di
industrie e privati.
Oggi il Seti è presente anche in Italia. Il responsabile è
l’ingegner Stelio Montebugnoli, 56 anni, responsabile della stazione di
Radioastronomia di Medicina (Bologna) dell’Istituto di Radioastronomia
dell’Inaf (Istituto nazionale di Astrofisica).
Professor
Montebugnoli a chi è venuta per primo l’idea di ascoltare l’Universo con
il radiotelescopio?
«Tutto nasce con un articolo scritto dai fisici Giuseppe Cocconi e
Philip Morrison del 1959. Cocconi e Morrison sostenevano che le
frequenze di trasmissione migliori per le comunicazioni interstellari
fossero quelle tra 1 e 10 gigahertz. Questa frequenza radio è la meno
disturbata dal rumore cosmico. All’interno si predilige l’intervallo
compreso tra l’emissione dell’idrogeno neutro (H) e dell’ossidrile (OH)
(cioé fra 1,4 e 1,6 GHz). La scelta si basa sull’ipotesi secondo la
quale se una civiltà extraterrestre cercasse di mettersi in
comunicazione con altre, probabilmente trasmetterebbe un segnale
monocromatico nelle vicinanze di queste frequenze».
Qual è la premessa su cui si basa la ricerca Seti?
«Se un ipotetico radioastronomo alieno trovasse "appiccicato" un
segnale monocromatico alla frequenza emessa dall’idrogeno, oppure se
tale segnale venisse casualmente individuato qui sulla Terra, ci si
chiederebbe subito che cosa ci fa attaccato all’idrogeno quel "corpo
estraneo", visto che in natura una tale combinazione non esiste».
Dalla Terra sono partiti segnali monocromatici verso lo spazio?
«Sì. Una volta sola: nel 1974 ad Arecibo per opera di Frank Drake,
con l’invio di un segnale di 10 megawatt di potenza. Non mi chieda
quanti soldi è costato perché non si è mai saputo, comunque tanti.
Speriamo che qualcuno sia in ascolto per ricevere quel segnale, però,
questo qualcuno dovrebbe tenere puntate le proprie antenne radio
nell’esatta direzione, nella giusta finestra temporale e con una
strumentazione elettronica adatta».
Visto che in tutto il nostro Pianeta non ci sono soldi per spedire
segnali nello spazio, come si lavora al Seti?
«Si lavora in "modalità passiva", con il Serendip IV. Si tratta di
uno strumento "parassita" che opera in parallelo alle normali operazioni
svolte dal radiotelescopio: una frazione del segnale radio ricevuto
viene inviata al sistema Serendip IV che cerca 24 ore su 24, la presenza
di un segnale di chiara origine extraterrestre. Ciò permette di
effettuare questo tipo di ricerche a costo zero».
Che cosa succederà se tra dieci anni il risultato sarà ancora
zero?
«Semplicemente che abbiamo sbagliato la direzione oppure la finestra
temporale o la frequenza oppure entrambe, sempre che la tecnologia sia
quella giusta. Lavoriamo tenendo sempre presente il motto di Martin Rees:
"La mancanza dell’evidenza non significa l’evidenza della mancanza".
Questo implicherebbe il dovere comunque di continuare le osservazioni».
Da 80 anni c’è la radio e da oltre mezzo secolo la tv. Questi
segnali stanno viaggiando nell’Universo. Possono essere agganciati da
intelligenze aliene?
«Sì, possono essere intercettati. Però chi li intercetterà si
troverà in mano un frammento piccolissimo di sequenza e non saprà da
dove proviene. Quindi dovrà individuare la fonte, capire di che cosa si
tratta e partire dalla decodificazione del nostro linguaggio».