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Clonazione, infranto un altro tabù
Da Usa e Corea nuova frontiera nello sviluppo dell'embrione umano
ROMA - Per la prima volta un embrione umano ottenuto per clonazione è stato fatto sviluppare in laboratorio fino a raggiungere lo stadio di blastocisti, il massimo stadio raggiungibile prima dell'impianto in utero e nel quale è possibile prelevare cellule staminali pluripotenti, ossia cellule bambine che potenzialmente possono essere fatte sviluppare in ogni direzione, per ottenere diversi tessuti: dalle ossa al sangue, dalla pelle ai muscoli, ai neuroni.
La notizia, pubblicata dalla rivista Science, è stata diffusa ieri notte dal quotidiano coreano Joongang Ang Ilbo, che ha rotto l'embargo che la rivista scientifica internazionale aveva fissato per le 20 di ieri sera (ora italiana).
Quello annunciato ieri è il frutto della ricerca condotta da dal gruppo dell'università di Seul guidato da Woo Suk Hwang, e da quello dell'università del Michigan diretto da Jose Cibelli.
Si tratta del passo più avanzato fatto finora nella clonazione di un embrione umano. Il primo annuncio della clonazione del primo embrione umano era stato dato nel novembre 2001 dall'azienda statunitense ACT (Advanced Cell Technology) e in seguito, nel dicembre 2003, la stessa azienda aveva raggiunto uno stadio di sviluppo ancora più avanzato, arrivando a 16 cellule.
Adesso la ricerca è arrivata al limite massimo dello sviluppo di un embrione in provetta, compiendo un balzo in avanti fino a 60-80 cellule e ottenendo quindi una blastocisti. Dopodiché perché l'embrione sopravviva è necessario impiantarlo in utero.
Ma i due gruppi di ricerca non hanno alcun interesse nella clonazione a fini riproduttivi. L'unico obiettivo del loro esperimento è infatti ottenere dall'embrione la riserva di cellule staminali da coltivare in laboratorio e da usare a scopo terapeutico.
Raggiungere lo stadio di blastocisti è necessario perché è soltanto in esso che si formano le cellule staminali. Questa è una struttura sferica, formata da strati concentrici di cellule al cui interno c'è una cavità. In un angolo di quest'ultimo c'è il cosiddetto «bottone embrionario», la culla delle cellule staminali.
Per ottenere l'embrione i ricercatori hanno utilizzato una cellula prelevata da una donna adulta e hanno inserito il suo nucleo all'interno di un ovocita in precedenza privato del suo nucleo, prelevato dalla stessa donatrice. A questo punto il cocktail di fattori di crescita presenti nell'ovocita ha riprogrammato la cellula adulta, l'ha fatta regredire nello sviluppo ed ha avviato il programma per farla dividere fino a dare origine a un embrione.
L'obiettivo degli esperimenti è la clonazione a scopo terapeutico: avere a disposizione una riserva di cellule prelevate dallo stesso paziente vuol dire avere a disposizione cellule compatibili con quelle del paziente cui è diretta la terapia ed evitare così problemi di rigetto. Le nuove cellule potrebbero infatti essere usate per riparare il tessuto del cuore colpito dall'infarto, quelli delle ossa danneggiati dall'osteoartrite, o ancora quelle di insuline per la cura del diabete, o quelle del cervello per la cura di malattia neurodegenerative come il morbo di Parkinson.
In quest'ultima direzione si stanno già muovendo i ricercatori di Seul, che dalle staminali embrionali hanno già ottenuto la prima linea cellulare di neuroni.
«Quello condotto dai ricercatori prelude proprio alla clonazione terapeutica - commenta il genetista dell'università di Roma Bruno Dallapiccola - anche se l'utilità di queste tecniche è ancora tutto da dimostrare. Infatti non è detto che le cellule ottenute una volta trapiantate nell'essere umano si specializzino nel senso giusto. Inoltre - dice Dallapiccola - queste ricerche pongono problemi etici enormi».
Gazzetta di Parma