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Camillo
Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure al n. 4 di via Roma il 12 gennaio 1888.
Il padre Carlo, ingegnere e architetto, militare a riposo dal 1893, è il
protagonista involontario di due tra le più famose poesie di Pianissimo,
la prima raccolta di successo di Sbarbaro. La madre, Angiolina Bacigalupo,
ammalatasi di tubercolosi nel 1889, morirà nel 1893 lasciando i suoi due figli
Camillo e Clelia alle cure della sorella Maria.
Da qui in poi
potrei continuare con una lunga sequenza di date, di fatti, avvenimenti e
proseguire con una lunga bibliografia ma non è questo ciò che vorrei
trasmettervi di Sbarbaro; questo è, quanto è possibile trovare in qualsiasi
dizionario enciclopedico.... Vorrei invece ricordare Sbarbaro, così
ingiustamente dimenticato dal grande pubblico che pur ama la letteratura e la
poesia, per una sorta di strana "egemonia" letteraria che esalta certe figure
letterarie (benché eccelse) e ne eclissa altre (altrettanto, se non
maggiormente, meritevoli) con un altro tipo di approccio: entrare nel "mondo" di
Sbarbaro significa riscoprire il valore delle cose semplici, dei profumi, della
natura; riempirsi gli occhi e la mente di silenzi; ecco, Sbarbaro non avrebbe
certo amato divenire il poeta di grido da invitare ad ogni show ma avrebbe certo
sorriso alla vista di un suo libro, discreta presenza, nella libreria di
ciascuno di noi, soprattutto di ogni giovane, lui che tanto li amava, lui che
crebbe rimanendo eternamente un animo fanciullo e che s'incanta alla vista di un
fiore.
Questo è
quanto appresi molto giovane su Sbarbaro e, nella mia personale libreria, grazie
a mio padre che di Sbarbaro era un grande fans, ci fu presto un libro (e c'è
ancora) di questo particolare autore, "Bolle di sapone". Un verso per tutti:
"Felicità non t'ho riconosciuta che
al fruscio con cui ti allontanavi"
Mi servirò
per questo di pagine mirabili scritte da chi Barbaro ha amato e studiato più di
me.
Dopo un breve
soggiorno a Voze, nel 1894 la famiglia si trasferisce a Varazze. "La casa a
Spontorno, in cui Sbarbaro viveva con la sorella, odorava di sottobosco. Nel suo
studio c’era una scrivania ottocento, con le gambe a tortiglione e ampi
cassetti. Di fronte, una sedia impagliata che perdeva paglia. A lato, una
scansia di legno scuro con la raccolta di licheni, amorevolmente stesi ad
essiccare sopra larghi fogli di carta spessa. Sbarbaro amava questa espressione
della natura, capace di adattarsi sulle rocce e di sopravvivere in condizioni
estreme. Oggi la sua straordinaria collezione di licheni è divisa tra Musei e
Università americane".
"Camillo Sbarbaro raccoglieva frantumi di idee che sezionava ed esprimeva in un
linguaggio spoglio; avvertiva un
fluire di apparenze, estraniate e staccate da sé; collezionava paesaggi scabri,
astratti, inabitabili, fuori del tempo, confortato da un velo di ironia. Le sue
intuizioni maturavano lentamente, covate in silenzio, nella sua solitudine di
adolescente invecchiato senza diventare adulto. Rifiniva con cura le frasi e la
punteggiatura; in uno sforzo di sintesi estrema riduceva la sintassi, come se lo
scopo ultimo fosse una definizione esatta, quasi scientifica, e non una pagina
letteraria".
(Fausta Samaritani)
Camillo Sbarbato
conobbe ed incantò il grande Eugenio Montale che gli
dedicò Ossi di seppia. Una dedica che è un soffio così come Sbarbato
visse, sentì la vita e fece poesia
Epigramma II
Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versi colori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d'un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.
(da Ossi di seppia, 1925)
"Sbarbaro
riservato, schivo, appartato, colto sognatore e candido poeta delle piccole cose
proseguì il proprio percorso artistico affermando il proprio bisogno di
"raccontare" con la poesia fatti che appartengono alla sfera del quotidiano.
Proprio i semplici argomenti delle sue poesie, costituiti da sentimenti
domestici, familiari, oppure tratti dalla osservazione della natura hanno fatto
talvolta paragonare Sbarbaro a Pascoli.
Quando Camillo Sbarbaro giudicò
che il lento processo di maturazione della sua scrittura era arrivato a
compimento, fece preparare in copia dattilografica la versione definitiva delle
sue opere e stabilì, per volontà testamentaria, che era questa l’edizione, ne
varietur (da non modificare), con la quale voleva essere ricordato. Distrusse
quindi, sistematicamente, appunti, brogliacci, pagine di diario, tutto quanto
poteva servire per ricostruire i suoi percorsi mentali, il lento maturare della
sua pagina poetica. Frammenti di testo, oggi reperibili, che possono aprire un
piccolo varco nella storia del mondo interiore di Sbarbaro, sono rarissimi e
preziosi: sono vere reliquie".1
Giuseppe Ravegnani, letterato e
profondo conoscitore di tutti i protagonisti della letteratura italiana della
prima metà del novecento, scrisse di Sbarbaro:
"Raccontano che Sbarbaro sappia di botanica come un
padre eterno. Solitario e misantropo, il suo discorso quotidiano non con gli
uomini avviene ma con le piante e i fiori. Una volta lo sorpresi in estasi
davanti a una pianticella esotica che, rinsecchita dietro a un vetro, faceva
mostra di se nella hall d’un albergo. Appena mi vide, me ne disse vita e
miracoli, e il nome scientifico, e la rarità, e come si dovesse allevare in
serra, bagnandola a ore fisse, quasi col contagocce. Sbarbaro è piccolo e
leggero di statura, un pò goffo, le spalle curve, d’uno che passa il tempo sui
libri e sull’erba. Ma, nel discorrermi di quella pianta che lo entusiasmava, mi
pareva s’allungasse, crescesse di misura, diritti il corpo e la testa, gli occhi
miti pieni di luce giuliva. Botanico e poeta si davano la mano".
(Giuseppe Ravegnani, in Mezzo
secolo di poesia, di Luigi Fiorentino, Siena, Maia).
Più che come poeta, scrittore, traduttore o botanico, in
paese aveva fama riconosciuta per le sue qualità di
insegnante poiché aveva, oltre che insegnato presso i gesuiti, impartito gratuitamente ripetizioni di
lingue antiche ai giovani
studenti.
Questa è una delle cose, oltre
al suo amore per le piante e le piccole cose, oltre al come l'ho "conosciuto",
che mi fa sentire molto vicino al mondo di Sbarbato, l'approccio con i
ragazzi, i giovani.... solo chi lo vive può comprendere la strana relazione che
si crea tra discente e docenti in un continuo interscambio, in un dare-avere che
rende gli uni un po' adulti e gli altri un po' bambini.
Di lui la scrittrice
Gina Lagorio, rispondendo ad un'intervista ed a una domanda in cui si chiedeva
il perché della passione per Sbarbaro, lei rispose:
"Sbarbaro era un uomo che
ha passato la vita in punta di piedi. Da qui i titoli: Bolle di sapone,
Pianissimo, Fuochi fatui, Trucioli, tutto lo scarto, tutto il minimo, era un
minimalista anzitempo, a cui non è sfuggita la verità della vita. Per cui,
incontrare Sbarbaro ed amarlo per me è stato tutt’uno. [...] Con le parole di
Platone «giova fare a se stessi di tali incantesimi»".
Solo negli ultimi anni di vita
ebbe il riconoscimento di poeta tra la sua gente, grazie soprattutto alla poesia
"A mio padre".
Animo sensibile visse il
successo di questa poesia con grande "rispetto" pur nella consapevolezza di
autore che molte ed altre sue prose avrebbero meritato uguale fama ma egli amava
il padre, comprendeva come gli affetti familiari siamo il "segno" che qualifica
la vita di un uomo nel filo che lega tutti noi alla vita presente e futura.
A
proposito di questo egli stesso scrisse:
"Ragazzine e ragazzini, dopo aver occhieggiato da fuori,
invadono il caffè, vengono al mio tavolo. L'insegnante ha letto loro la poesia A mio padre. La fama, nel suo aspetto più amabile".
Ed è proprio questa la poesia
che troverete di seguito, anch'io nella consapevolezza che altre liriche di
Sbarbato meriterebbero ugual visibilità ma, come scrisse egli stesso poche cose
sono amabili come il ricordo di un padre, poche cose meritano fama come il non
dimenticarlo per non scordare mai chi si è.......
A mio padre
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
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