NEW YORK –
Anche le comete, come tante altre cose nel Cosmo,
non sono più quelle di prima. Mentre molti
incominciavano già a lamentare il «ritardo» delle
stelle cadenti, e cioè dei frammenti di polvere
interplanetaria che diventano incandescenti per il
contatto con l’atmosfera mentre precipitano verso la
Terra, e tradizionalmente si vedono soprattutto
durante la notte di San Lorenzo del 10 agosto, gli
scienziati della Nasa hanno dato nel giorno di
Ferragosto l’annuncio di un fenomeno molto più
straordinario.
Il telescopio spaziale Galex
(abbreviazione di Galaxy Evolution Explorer) per la
prima volta, durante il monitoraggio della stelle
hanno osservato un lontanissimo astro morente,
battezzato con il nome «Mira» per la sua bellezza,
che si trascina dietro, alla velocità di 130
chilometri al secondo, una coda colossale lunga 13
anni luce. Un anno luce, vale a dire l’unità di
lunghezza usata per le misure astronomiche che
corrisponde alla distanza percorsa dalle radiazioni
luminose, che viaggiano alla velocità di 300.000
chilometri al secondo, equivale a circa 9500
miliardi di km. Se si pensa che la distanza della
Terra dal Sole è di «soli» 150 milioni di
chilometri, si può avere così un’idea sia pure
lontana di che cosa significhi questa lunghissima
coda. Tredici anni luce, spiega l’astrofisico
Christopher Martin del California Institute of
Technology di Pasadena, corrispondono a 20.000 volte
la distanza fra il Sole e Plutone. «Quando ho
esaminato la coda di Mira - confessa Christopher
Martin, il direttore del centro di osservazione del
telescopio spaziale Galex - sono rimasto allibito.
Mai avrei potuto pensare che questa stella rossa
gigante che gli astronomi conoscono e studiano da
oltre 400 anni ci potesse riservare ancora delle
sorprese». Mira è «una gigante rossa», una stella
vecchia e molto veloce che durante la corsa libera
grandi quantità di materiale.
L’interesse della scoperta,
come lo scienziato spiega insieme agli altri
colleghi del gruppo di monitoraggio del Galex in un
articolo che compare nel numero del 15 agosto della
rivista Nature, deriva dal fatto che
studiando la coda di Mira - o più esattamente della
stella che ora viene chiamata Mira A, per
distinguerla dalla sua sorella minore chiamata Mira
B che la accompagna rotolando nel cosmo alla
velocità di 467.000 chilometri orari - si potrà
capire con maggiore chiarezza che cosa succederà nel
momento, per ora talmente remoto da sembrare
incredibile (ma che è invece sicuro), della «fine
del mondo». Un giorno, forse fra pochissimi miliardi
di anni, perché il nostro sistema solare è già
vecchio di 5 miliardi di anni, anche il nostro Sole
lentamente si spegnerà diventando come Mira. Non
potremo fare nulla per impedirlo, ma, quanto meno,
avremo la modesta consolazione di sapere che cosa
succede con un discreto preavviso.
Ad ogni buon conto, come notano gli ottimisti,
tutto questo lungo processo di spegnimento del Sole
che ci riguarda non significa necessariamente fine
dell’universo. «Dallo studio della polvere di stelle
di questa scia interminabile lasciata da Mira –
aggiunge Mark Seibert degli osservatori stellari
della Carnegie Institution di Washington, che
collabora con Christopher Martin alle ricerche di
Pasadena – abbiamo molta fiducia di capire come
nascono le nuove stelle. Non solo, dall’analisi
della materia cosmica, dato che la coda stellare di
Mira contiene i gas che si sono sprigionati nel
corso degli ultimi 30.000 anni, è possibile che
queste indagini ci aiutino a capire in parte perfino
il mistero dell’origine della vita». Fin qui, anche
se la lunghissima coda di «polvere di stelle» è
tutta da da analizzare, la sensazionale scoperta.
Che, come spesso succede, ancora una volta (e già
Newton insegna) è accaduta quasi per caso. La scia
dell’astro morente, infatti, era sfuggita finora a
tutti gli altri telescopi probabilmente perché i gas
sprigionati dal nucleo rosseggiante di Mira sono
visibili solo all’ultravioletto.
Ma del resto la «gigante rossa»
di questi scherzi agli astronomi ne ha fatti
parecchi. Era già successo quando la stella fu
notata per la prima volta dall’astronomo olandese
David Fabricius il 3 agosto 1596, mentre lo
scienziato stava studiando Mercurio e aveva bisogno
di una stella come punto di riferimento per
misurarne la posizione e scelse la più luminosa e
vicina al pianeta, un astro ancora anonimo di terza
magnitudine. Quando Fabricius la osservò di nuovo,
però, il 21 agosto, la stella era diventata di prima
magnitudine e in ottobre era addirittura invisibile.
Lo scienziato, di conseguenza, concluse che doveva
trattarsi di una nova, e cioè di una stella che
aumenta improvvisamente di luminosità per poi
ritornare di alla luminosità primitiva.
Ma in una quarta osservazione,
avvenuta dopo oltre dodici anni il 16 febbraio 1609,
l’astronomo notò che la presunta nova era ritornata
a brillare, il che sembrava smentire l’ipotesi della
nova. Toccò poi a due altri scienziati, il frisone
Johann Holwarda e il tedesco di Danzica Johannes
Hevelius, di determinare il periodo di riapparizioni
di questa stella variabile, che Holwarda sbagliando
di poco i calcoli fissò in undici mesi e che
Hevelius chiamò Mira (in latino «meravigliosa»). Fu
così che, dopo queste scoperte, la stella Mira
(detta anche, dal nome della costellazione, Omicron
Ceti) divenne la capostipite e la più conosciuta
della classe di 6000 stelle variabili a lungo
periodo che si conoscono oggi.