North Dakota, 12
maggio 2006 ore 18:00
Astronauta-cavia. La
Nasa l’ha scelto per collaudare una nuova tuta spaziale, quella che
vestirà il primo navigatore che metterà piede su Marte. Fabio Sau,
cagliaritano, l’ha indossata per fare le prove di esplorazione umana del
pianeta più simile alla Terra mai raggiunto dall’uomo. Costruita su
misura, cucita addosso come un abito di alta sartoria, è frutto di un
progetto del quale lui stesso fa parte in qualità di ricercatore
all’università del North Dakota, Stati Uniti.
Con il sofisticato equipaggiamento ha simulato una passeggiata, raccolto
reperti e osservato la vegetazione in una zona desertica al confine col
Canada. Il test è durato da lunedì a sabato scorso, giorno del suo
trentunesimo compleanno. Astronauta per una settimana - quattro ore ogni
giorno - ha provato l’ebbrezza della spedizione spaziale stando coi
piedi per terra. Collegato via radio con l’équipe guidata dal professor
Pablo de Leon (capo del progetto durato 15 mesi), completamente isolato
rispetto all’ambiente esterno, ogni suo respiro, gesto e parola sono
stati raccolti e registrati dallo staff che lo seguiva a distanza. Non è
mancato qualche attimo di suspence: «Il rischio era in conto, ma
l’esercitazione serviva proprio a far emergere i problemi». Per qualche
secondo il compressore azionato dall’esterno ha smesso di incanalare
aria. «Avrei potuto inspirare anidride carbonica, ma in un attimo sono
intervenuti e tutto è andato a posto». Il calore ha invece avuto
conseguenze prevedibili: chiuso in quello scafandro con 35 gradi
all’esterno, l’effetto sauna gli ha bruciato cinque chili. «Ora sono più
scattante e slanciato di prima». In forma lo era di sicuro, altrimenti
non l’avrebbero selezionato tra tanti nomi. «Oltre a una perfetta
conoscenza tecnica delle procedure, erano richieste condizioni fisiche e
psichiche ottimali». Orgoglioso di aver fatto il "modello", lo è ancor
più perché il lungo lavoro di ricerca è stato premiato dai risultati.
«Il pericolo più temuto era che la tuta esplodesse». Invece il prototipo
è risultato quasi perfetto e sarà utilizzato per le future spedizioni su
Marte. «Nel 2030, dieci anni dopo il prossimo viaggio sulla luna». Gli
americani hanno ritrovato il proprio orgoglio nazionale dopo i fiaschi
dello Shuttle collezionati nelle ultime spedizioni e hanno dato grande
risalto mediatico all’esperimento del quale Fabio è stato protagonista.
Laureato in legge all’università di Cagliari, davanti all’unica
prospettiva di lavoro in Sardegna («sarei finito in un call center») ha
preso il volo per l’estero. Nel 2004 a Strasburgo - un anno all’agenzia
spaziale - poi negli States con un master in tecnologie spaziali e un
contratto di ricercatore universitario. Parla correntemente inglese,
francese, spagnolo «e sto cercando di digerire il tedesco». Quasi da
offuscare la lingua madre. «Per fortuna c’è una signora italiana con la
quale chiacchiero ogni tanto, altrimenti potrei davvero perderla». Non
perde invece le radici ancorate a Tonara, paese del nonno calzolaio e
del padre, funzionario regionale. «Niente limba, ma quando devo
presentare qualche studio sull’Italia ci infilo sempre la Sardegna
precisando che è il posto più bello al mondo». Una sottile nostalgia per
il Poetto e un vago ricordo degli anni spensierati da studente del
Siotto. «Come dimenticare gli appuntamenti alla quarta e quinta
fermata?». In America, oltre alla famiglia, ciò che più gli manca è il
mare: «Qui posso fare un tuffo in enormi pozzanghere che loro chiamano
laghi». Per il resto, «non potrei desiderare di più». Il suo motto è
Suae fortunae quisque faber est (La fortuna è l’incontro tra
preparazione e opportunità). «Purtroppo in Sardegna questa combinazione
si verifica poco, nessuno ci valorizza. Qui tirano fuori e accrescono le
tue conoscenze e ti offrono vere opportunità».
Non tornerà?
«Alle condizioni attuali è difficile. Tornerei se potessi sviluppare
un’idea».
Quale?
«Mi piacerebbe portare una sessione estiva dell’università di
Strasburgo, 3-400 ricercatori per un master. Il Centro Polaris di Pula
sarebbe la sede ideale».
Per farci cosa?
«Una piccola base spaziale. In Sardegna, per la conformazione geografica
del territorio, la presenza di zone disabitate e battute dal vento,
l’assenza di inquinamento acustico e luminoso, esistono le condizioni
estreme ideali per riprodurre una base lunare».
Utopia o ci crede davvero?
«Ci credo ma non basta. Mancano la sensibilità e il sostegno della
classe politica. Non c’è nessuno che ascolti e parli alla gente. Qui mi
è capitato di scrivere a senatori che hanno risposto a breve giro di
posta. In Italia chi ti considera?».
Quale sarebbe il ritorno per la nostra Isola?
«Di immagine ed economico. A patto che si impari a litigare meno e a
credere di più nelle potenzialità dei giovani».
Cosa ci vorrebbe?
«Il John Kennedy degli anni Sessanta che ha creduto nel progetto di
spedire persone nello spazio e un Wernher von Braun, lo scienziato
tedesco padre del programma spaziale che ha regalato all’America la
chiave per uscire dal complesso di inferiorità tecnologico nei confronti
dell’Urss».
Il suo obiettivo?
«Lavorare nell’industria spaziale per mandare scienziati in altri
pianeti. Progetto romantico e idealistico ma realizzabile stando qui».
Si sente con un piede su Marte?
«Ho licenza di sognare, ma si tenderà a scegliere scienziati puri. Io
sono solo un lawyer, un legale con una preparazione post-universitaria
in tecnologie spaziali. Non avrò i requisiti».
Potrebbe seguire gli astronauti come "guardarobiere" progettista
della tuta.
«Sarebbe un bel traguardo anche così».
A che serve esplorare il pianeta rosso?
«Le tecnologie usate per le esplorazioni sono incentrate e ruotano
sempre intorno all’uomo e hanno quindi applicazione anche nel
quotidiano. Molti prodotti sono frutto di questi studi e di competizione
tra nazioni. Ne sanno qualcosa Russia e Usa».
Quanto è stato investito per la tuta marziana?
«Per tutto il progetto 150 mila dollari. Un’inezia se si pensa che la
tuta spaziale costa 25 milioni di dollari».
C’è una parte romantica dell’esplorazione?
«L’ansia di scoprire cosa c’è dietro l’orizzonte».
Quella scientifica?
«È la vera ragione. Marte è un piccolo pianeta arido, desertico. C’è la
presenza di ghiaccio e sappiamo che dove c’è acqua c’è vita. Scoprire
tracce di un piccolo insetto o qualsiasi altro organismo vivente può
rivelarci che la vita non è confinata al solo pianeta Terra».
Come vede la Sardegna dal North Dakota?
«Come un luogo in cui sarei uno dei tanti laureati relegati in uno
stanzino a vendere qualcosa per telefono».
Cosa le ha dato l’America?
«Una straordinaria occasione, persone disposte a pagarmi per fare
ricerca. I privati finanziano le università, gli sponsor sono pronti a
investire su un progetto e lo sostengono fino in fondo, con tutti i
rischi. Negli Usa non è vietato sognare».
Generosità gratuita?
«Non proprio, ma la gente ha una grande capacità di muovere cose e
capitali. Se uno studente chiede un prestito in banca lo ottiene nel
giro di un’ora, da noi si dovrebbe rinunciare all’università».
Innamorato del popolo americano?
«Questo è un altro discorso. Nello Stato in cui vivo c’è una
combinazione di culture sorprendente. Sono i diretti discendenti dei
primi coloni: ucraini, norvegesi, scandinavi. Io sono l’unico con
carnagione e capelli scuri, loro tutti biondi, è come essere in Svezia.
Purtroppo non si aprono, sono diffidenti e innalzano barriere personali
invalicabili».
E le americane?
«Sugli italiani ragionano per stereotipi: sono tutti siciliani, vivono a
New York e appartengono a qualche organizzazione criminale. Se va bene
sono latin lover, passionali, sanno cucinare e si aspettano chissà che».
Nessuna fidanzata?
«Dicono di me che sono un single in looking, alla ricerca».
Con tanti soldi?
«Non diventerò ricco come ricercatore nel North Dakota. Prendo mille
dollari al mese, ma vivo al campus universitario spesato di tutto e la
vita fuori costa quattro volte meno che in Italia. Con un dollaro e
mezzo si comprano quattro litri di latte, con poche migliaia una
macchina usata e con un pieno di benzina ci si dimentica dell’ultimo
rifornimento».
Allora Bush non avrebbe bisogno di fare guerre per il petrolio?
«È vero che qui costa poco e ci si preoccupa quando arriva a tre dollari
al gallone (poco meno di quattro litri), ma è anche vero che tutto
funziona a benzina, se mancasse ci sarebbe la paralisi. Alla luce di
questo, per il presidente americano è lecito avere il controllo sulle
risorse petrolifere».
Controllo uguale guerra ai Paesi produttori?
«La guerra in Iraq è una spina nel fianco. Molti disapprovano, ma i
giovani che non possono permettersi di pagare 40 mila euro l’anno per
l’università scelgono di arruolarsi e non ne fanno una colpa a Bush
anche se ci rimettono la pelle».
Il suo viaggio in America: necessità o passione?
«Passione ma anche la fortuna di aver preso il master a Strasburgo e di
aver conosciuto un team di prim’ordine che mi ha voluto nel progetto».
A chi dedica questo momento felice?
«A mia madre che da gennaio non c’è più. È stata la prima sostenitrice
delle scelte che mi hanno portato lontano».