Qui sulla Terra non ci sono problemi nel determinare il corretto
alternarsi del sonno e della veglia. L'organismo umano, infatti, è
perfettamente in grado di sincronizzare il proprio orologio interno,
aiutato peraltro in modo decisivo dall'alternarsi regolare del giorno e
della notte (ciclo circadiano). Si trova sicuramente in difficoltà,
invece, chi è costretto a fare i conti con radicali cambiamenti di
orario, come i lavoratori impiegati su turni variabili oppure chi
affronta viaggi che comportano pesanti cambi di fuso.
Identiche difficoltà - se non maggiori - per gli equipaggi delle
missioni spaziali. Tanto per cominciare, lassù in orbita il ciclo
luce-buio ha una durata di un'ora e mezza e già questo basterebbe a
sconvolgere in pochissimo tempo l'orologio biologico di chiunque. Il
problema maggiore, però, è che gli astronauti non sono in gita di
piacere, ma sono chiamati a svolgere operazioni estremamente delicate.
Per questo motivo, fin dai primordi delle operazioni spaziali, la NASA
ha sviluppato un protocollo (detto Appendix K) per definire nei dettagli
il corretto alternarsi del ciclo veglia-sonno. L'obiettivo è quello di
regolare al meglio il naturale ciclo circadiano e, nel contempo,
assicurarsi che nei momenti di veglia gli astronauti fossero al top
della forma fisica e mentale.
Un recente studio, effettuato da ricercatori dell'University of
Pittsburgh School of Medicine e sostenuto proprio dallo stesso Ente
spaziale americano, ha però evidenziato che il protocollo adottato dalla
NASA deve essere rivisto. Osservando le risposte biologiche e
comportamentali di alcuni volontari che hanno simulato una "missione"
della durata di 16 giorni, i ricercatori hanno notato come l'organismo
si adatti meglio se il cambiamento è graduale. Mentre il protocollo NASA
prevede che si intervenga sul ritmo sonno-veglia anticipando o
posticipando di due ore il momento del riposo, lo studio ha evidenziato
come l'organismo risponda meglio se questo slittamento dell'ora della
nanna sia solamente di un'ora per notte.
Alla NASA, comunque, non sono ancora intenzionati a mandare a letto l'Appendix
K. Sono gli stessi autori dello studio, infatti, che sostengono la
necessità di compiere altre ricerche prima di poter stendere il
protocollo sostitutivo.
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