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Ai Musei Vaticani una mostra ricostruisce il volto e il corpo delle sculture romane:

erano coloratissime e non bianche come le vediamo oggi  

 
     
 

CITTA’ DEL VATICANO - L’imperatore Augusto mentre parla ai legionari, con il braccio destro disteso nella sua immagine-simbolo più conosciuta, la statua dell’ Augusto di Prima Porta. Ma, ohibò, l’imperatore ha il rossetto sulle labbra, ciglia e sopracciglia truccate, i capelli tinti di un rosso mattone. I personaggi a rilievo sulla bianca corazza sono dipinti di azzurro e rosso. Il manto dalle mille pieghe, avvolto alle reni e che ricade dal braccio sinistro, è una cascata di rosso porpora. Accanto, quasi a rassicurarci che la prima visione è solo un miraggio, il vero Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani si staglia nei due metri e passa di altezza contro il cielo azzurro di Roma. Ed è come lo si conosce dal 1863, anno in cui fu scavato quasi integro poco a Nord di Roma: un marmo non candido, leggermente offuscato per i secoli passati sotto terra. Nessun colore, all’apparenza.

Ecco allora l’apparenza finalmente svelata, il bianco del marmo che nell’antichità greca e romana non è stato mai bianco è presentato con una gamma di colori, una trama di colori inimmaginabili solo ai nostri occhi moderni, ipnotizzati paradossalmente dalla concezione che si è imposta col neoclassicismo, da Winckelmann a Canova, del bianco colore del bello ideale. Con la complicità però degli stessi archeologi che hanno perpetuato “uno dei più grandi equivoci della storia dell’arte antica”. Semplicemente ignorando o negando la policromia della scultura antica classica. “Ancora oggi - scrive Hermann Born - non solo i visitatori di musei e di mostre e i milioni di turisti nei paesi mediterranei non vengono informati correttamente e in modo aggiornato sul tema ‘policromia della scultura e dell’architettura nel mondo antico’”. E arriva ad affermare che “la realtà della pittura antica su pietra è ancora oggi ignorata o negata da molti archeologi”.

Proprio quello che non vuole fare questa mostra ai Musei Vaticani dall’obiettivo dichiarato nel titolo I colori del bianco. Mille anni di colore nella pittura antica, aperta dal 17 novembre al 31 gennaio 2005 nello spazio polifunzionale vicino all’ingresso dei Musei Vaticani (e visitabile gratuitamente). Una collaborazione dei “Vaticani”, diretti da Francesco Buranelli, con la Gliptoteca di Monaco e la Ny Calrlsberg Gliptoteca di Copenaghen dove la mostra è già stata presentata. Curatore dell’esposizione vaticana Paolo Liverani, ispettore delle antichità classiche dei “Vaticani”. Guida della mostra edita da De Luca come il volume scientifico con saggi e ricerche. Una interessantissima mostra, sconvolgente delle nostre immagini tradizionali dell’arte antica, che riunisce 37 pezzi piccoli o grandi, fra originali, copie, calchi, ricostruzioni, in marmo, pietra, terracotta, gesso, resina, dal VI secolo avanti Cristo (l’arcaismo greco) al VI dopo Cristo della tarda antichità. Sono materiali greci, etruschi, romani, bizantini. Più di mille anni di storia.

Il marmo antico viene presentato con gli “effetti speciali”, una scelta che non vuole avere la pretesa di soluzioni definitive, tanti e tali sono gli aspetti da chiarire in questa materia dalla documentazione molto frammentaria, ma basati in ogni caso su risultati oggettivi ottenuti con moderne indagini scientifiche. Nel 1982 l’università di Monaco ha avviato un progetto di ricerca sulla policromia delle sculture antiche condotte sugli originali, che si è sempre più sviluppato. Dal 1998 al 2003 i Musei Vaticani hanno studiato, restaurato e ricostruito la policromia dell’ Augusto di Prima Porta. Con sorprese.

Al momento della scoperta nella villa di Livia, terza moglie di Augusto, la villa alle “Galline bianche” lungo la Flaminia, la scultura del I secolo dopo Cristo aveva fatto scalpore anche per le tracce di vivace policromia che si erano poi attenuate nel tempo. Ma l’ultimo restauro ha permesso di recuperare le tracce di colore sotto la polvere e le incrostazioni “fortunatamente mai del tutto rimosse” nota Paolo Liverani. Ne è seguita tutta una serie di analisi scientifiche, esame morfologico dei campioni, esame mineralogico-petrografico, immagini all’ultravioletto, all’infrarosso, al microscopio a scansione elettronica che sono serviti per determinare “estensione, tipo e composizione dei colori” e sulla loro base è stato ricostruito un calco in gesso con relativi colori. Alcuni dettagli minori della policromia sono basati su ipotesi e alcune sfumature di colore sono per approssimazione, ma secondo Paolo Liverani, nell’insieme la ricostruzione dà una buona idea di come doveva essere l’originale. Si è cercato di evitare concezioni correnti, “gusto estetico e cromatico contemporaneo”.

Così è risultato che i colori utilizzati sono solo sei o sette. L’azzurro (“fritta alessandrina” o “ blu egiziano) per parti di divinità (Sole, Marte, Artemide), personificazioni di popoli, soldati, barbari che ornano la corazza, le strisce di cuoio della corazza di Augusto. Il rosso carminio come la lacca di garanza, un rosso organico estratto dalla radice della robbia, che colora il manto dell’imperatore, una parte delle stesse strisce di cuoio, vesti di personaggi sulla corazza. Un rosso a base di ocra, a volte mescolato col carminio, per la tunica dell’imperatore, le labbra (il “rossetto”, tracce lievissime, “quasi ombre” come per gli occhi). Un bruno (“terra di Siena”) per esempio per i finimenti in cuoio dei cavalli del carro del Sole, i calzari di Marte, le insegne romane. Un bruno, più chiaro del precedente, è stato utilizzato per tutte le capigliature, dell’imperatore e dei personaggi sulla corazza. Il giallo (ossidi di piombo) solo sulle frange.

Dal punto di vista della composizione dei colori - spiega Paolo Liverani - la novità più importante è l’identificazione di una lacca organica per il rosso che ci fa capire un altro aspetto della policromia antica: i colori dovevano essere una aggiunta di preziosità alle sculture in marmo, non dovevano nascondere le preziosità del marmo. L’effetto di questa lacca “doveva essere piuttosto trasparente, dunque più adatto a rendere la porpora rispetto agli ossidi di ferro. Per la sua finezza questo tipo di colore non si limita a coprire il marmo, ma lascia riconoscere almeno in parte la trasparenza della sua struttura cristallina”. E nel caso dell’ Augusto di Prima Porta si tratta della migliore qualità del marmo di Paros, certamente fra le più costose. Anche il marmo che è risultato agli esami privo di colore non è soltanto marmo. Gli ultravioletti hanno rivelato su queste parti tracce di caseina e allora si può pensare che il derivato del latte sia stato usato non solo come legante dei colori, ma, steso su tutta la superficie della statua prima dei colori, come sostanza che facilitava la presa del colore, come una preparazione. E la caseina sulle parti che sarebbero rimaste bianche “conferiva probabilmente un aspetto più caldo”.

L’ Augusto di Prima Porta è quasi integro, ma questo non significa che non sia stato restaurato. Anche qui con sorprese. Era già noto che in antico qualcuno era intervenuto sul braccio destro e la gamba sinistra. Ora si è scoperto che ci sono stati altri interventi sulla scultura e, ancora più curioso, sulla policromia. In particolare sulla tunica di Marte si sovrappongono due strati: “Il colore più antico è piuttosto raffinato, un rosso-arancione composto di ocra rossa, minio e cinabro; il più recente un’ocra rossa a base di ossidi di ferro e di piombo, questi ultimi in una percentuale più alta che nello strato più antico”. Ancora, sulle frange della corazza di Augusto un colore giallo è ridipinto sulla fritta alessandrina azzurra: un colore originale di buona fattura è stato sostituito da uno di composizione meno nobile. L’azzurro era stato usato sulle frange di fili di bronzo della corazza, ma, caduto in parte questo colore, si è preferito cambiare “non solo perché il giallo era più economico e facile da stendere, ma anche per suggerire l’oro (un caso unico nella statua)”. Questo dettaglio fa pensare ad un intervento in età imperiale avanzata “quando l’uso dell’oro nella policromia è assai diffuso”.

Ma perché fra tutti questi colori la pelle del volto di Augusto e il fondo della corazza sono bianchi, al naturale del marmo, come hanno confermato le indagini scientifiche? La spiegazione va probabilmente cercata nell’altissimo valore politico della scena rappresentata sulla corazza. Si tratta del recupero (senza guerra, per via diplomatica) delle insegne che l’esercito romano guidato da Crasso aveva perduto nel 53 avanti Cristo nella battaglia di Carre ad opera dei Parti, l’indomito popolo dell’altipiano iranico (che ebbe fra i suoi re Mitridate, e che fu per Roma fonte di lunghi scontri e problemi). Nel 20 Augusto era riuscito a farsi restituire le insegne rimediando in parte a quella vergogna e sulla corazza la restituzione doveva essere la scena immediatamente percepibile dall’ osservatore, con tutti i dettagli. Una corazza dipinta in modo da ricordare il bronzo, cioè di colore blu ravvivato da decorazioni in rame o materiale prezioso, avrebbe “soffocato” la scena, avrebbe distratto dai particolari. Stessa valutazione per il volto dell’imperatore: pelle bianca per far risaltare le parti più importanti: occhi, bocca, capelli. A questo punto dove andrà l’ Augusto di Prima Porta “a colori” dopo la mostra? “Rimarrà una sperimentazione - ha risposto Paolo Liverani -. Non avremo il coraggio di metterlo accanto all’originale quando tornerà nel Museo Chiaramonti, ai Vaticani”.

L’ Augusto è l’opera della mostra che attira maggiormente l’attenzione, ma il primo impatto i visitatori l’hanno con un “terribile” leone in pietra da Loutraki, Corinto, del 550-570 avanti Cristo, in realtà un calco in resina dalla Gliptoteca di Copenhagen con tentativo di ricostruzione della policromia. Corpo in ocra giallo, criniera blu notte come la punta della coda, baffi dipinti in rosso come gli occhi gonfi, bocca e denti bianchi, due grossi punti rossi fra gli occhi azzurri. “Se i visitatori superano questo shock, possono procedere tranquillamente nella mostra” commenta Paolo Liverani.

Subito dopo si è accolti da una sorridente (nonostante la mutilazione della mano sinistra) Kore col peplo dal Museo dell’Acropoli di Atene del 530-520 avanti Cristo (calco policromo in resina, dal Museo di Monaco, con decorazione dipinta nel 1923-24). In realtà non si tratta di una Kore, parola greca che significa “fanciulla” o “vergine” (né di un peplo), come era stata battezzata al momento del ritrovamento in frammenti nel 1886 e questo perché era andato perso (o meglio non era rilevabile) un elemento essenziale, il colore. Recentemente, grazie ad una forte luce radente, sotto la cintura della cosiddetta Kore sono apparsi i graffiti preparatori di una serie di rosette lungo due fasce verdi verticali che scendono fino all’orlo inferiore della veste. Al centro sono state scoperte per la prima volta una serie di raffigurazioni di piccole dimensioni di colore rosso: un cavaliere, una sfinge, uno stambecco, un leone, probabilmente un cinghiale. Questo fregio animalistico unito ad una particolare sopravveste simbolo del potere, fa supporre una divinità protettrice della città come Athena per Atene o piuttosto Artemide. Nella mano destra c’è un foro forse destinato ad una lancia o a un gruppo di frecce. La sinistra reggeva forse uno scudo o un arco.

I colori erano riservati a rappresentazioni di divinità, principi? “No assolutamente - risponde Paolo Liverani -. La dimostrazione è proprio di fronte alla cosiddetta ‘Kore’: la stele di Aristione posta nel 510 avanti Cristo circa, sulla tomba di un cittadino morto in guerra combattendo valorosamente”. L’originale è nel Museo nazionale di Atene qui c’è un calco policromo in resina. Aristione, in piedi, impugna una lunga asta (forse una lancia, di colore blu come l’elmo e gli schinieri). La tunica corta e leggera è di colore bianco, sopra una corazza di cuoio giallo ocra con decorazioni giallo-verdi. Sull’originale, ancora con una forte luce radente si è riusciti a distinguere sullo spallaccio, incisa o a lievissimo rilievo, una stella con 16 raggi e più in basso una testa di leone dalla criniera fiammeggiante. La superficie dei raggi è ben conservata il che fa pensare che sia stata protetta da un colore resistente, il blu, mentre il disco centrale della stella era rosso. L’elemento inferiore dello spallaccio ha ancora oggi tracce rosso ocra. La criniera ben conservata fa pensare al verde anch’esso resistente.

I colori non sono solo per le persone comuni, ma servono anche a risparmiare. Nella mostra c’è la stele di una donna, Paramythion (calco policromo in resina dell’originale a Monaco), databile intorno al 370 avanti Cristo e scoperta nei dintorni di Atene. Ha scolpito solo il vaso per l’acqua nuziale. Tutto il resto della decorazione (anche la voluta del vaso, anche il nome della defunta) è dipinto con colori ancora riconoscibili.

Dopo i calchi, tanti originali etruschi da Cerveteri e Vulci, fra i pezzi migliori del Museo Gregoriano Etrusco, sempre dei “Vaticani”. Un’urna cineraria, una antefissa a testa femminile (la decorazione al termine di una fila di coppi di un tetto), l’antefissa della Signora degli animali, il torso di un guerriero con corazza, un acroterio con cavallo alato (una scultura che faceva parte di un frontone di tempio e anche qui è presentata in alto per far apprezzare l’utilità pratica, di visibilità dei colori), una testa dono votivo di un fedele. Per l’urna la policromia è decisiva per la resa dei dettagli altrimenti “l’immagine sarebbe piatta e scarsamente comprensibile”. La policromia dell’antefissa a testa femminile da Cerveteri, della fine del VI secolo avanti Cristo, è quasi perfettamente conservata: incarnato in bianco uniforme, labbra in rosso, contorni degli occhi, sopracciglia, pupille in nero, iride in grigio sfumato, capelli rossi con linee ondulate, boccoloni e due lunghe ciocche dietro le orecchie. Diadema in testa con doppia fila di foglie verdi. Gli orecchini sono a disco con rosetta dipinta al centro. Il cavallo (inizio del V secolo) ha un modellato e una decorazione dipinta di grande finezza con una tavolozza essenziale (rosso, nero, bianco avorio). La testa era di serie, veniva prodotta con una matrice, ma personalizzata col colore. Il rosso vivo dell’incarnato è caratteristico delle figure maschili, in nero sono dipinti i capelli, le sopracciglia e perfino i peli della barba resi visibili dal restauro fatto in occasione della mostra. La testa stessa viene presentata per la prima volta. Tutte queste sculture sono in terracotta, un materiale che da tempo siamo abituati a vedere “a colori” forse perché povero e quindi siamo ben disposti a vederlo impreziosito. Per il nobile marmo vediamo il colore come un binomio quasi contro natura.

In mostra c’è anche un altro imperatore romano, Caligola. Il suo è uno dei ritratti che meglio conservano “le delicate tracce della policromia originale” spiega Paolo Liverani e lo vediamo accanto al calco policromo in resina (tutti e due vengono dalla Gliptoteca di Copenhagen). Ad occhio nudo si riconosce un tono bruno nerastro nella pupilla, nelle ciglia e sopracciglia dell’occhio sinistro, in diversi punti dei capelli (nero d’ossa come pigmento) e ancora nelle basette. “Qualche macchiolina di incarnato” sul collo e vicino all’occhio sinistro: ocra “sovrapposta ad uno strato di preparazione bianco”. Tracce di rosso fra le labbra, nelle ghiandole lacrimali e sull’orlo delle palpebre: lacca di garanza con uovo per legante.

Fra le sorprese della mostra i visitatori devono mettere in conto anche trovare colori non solo su statue, su sculture, ma sulle strutture dei palazzi, sulle lastre di rivestimento (sempre marmo) come dimostrano a Roma le lastre della parete di fondo della cosiddetta Aula del Colosso, la statua di Cesare, più probabilmente di Augusto, di cui ci rimangono solo un paio di frammenti e il basamento. Ė l’aula posta sul fondo del foro di Augusto, a sinistra del tempio di Marte Ultore. Un luogo particolarmente onorato perché Paolo Liverani ci ricorda che qui furono riportate “le famose insegne militari restituite dai Parti”. Secondo le indagini della soprintendenza del Comune di Roma le lastre erano dipinte come un ampio e pesante panneggio a fondo blu con un disegno di festoni e palmette rosse. Sotto al rosso i ricercatori dei Musei Vaticani hanno trovato uno strato preparatorio giallo di ossido di piombo, sotto al quale tracce di “nero di vite” fanno parte del disegno preliminare. Il Colosso si stagliava ad ogni modo contro un fondo “dai colori decisi e carichi”.

Quanto sia lontana la nostra mentalità da quella degli antichi può essere reso dal dramma Elena di Euripide del 412 avanti Cristo e citato da Paolo Liverani. A Troia non è stata rapita Elena in carne ed ossa, ma una statua con le sue fattezze. La bellissima donna continua però ad avere molti motivi per piangere sul suo destino fino al punto da invocare di perdere la propria bellezza “come si perde il colore di una statua”. In parole povere “la statua bianca era brutta”.

Ecco allora il complesso più numeroso di calchi policromi in resina, presentato in mostra e quello più “provocatorio”: una serie di “effetti speciali” degni degli abiti e dei maglioni di un Missoni (o forse viceversa). Si tratta dei personaggi del frontone Ovest del tempio di Aphaia nell’isola greca di Egina, del 500-490 avanti Cristo. Nel 1811 furono scoperti i due frontoni (che hanno entrambi per soggetto la guerra di Troia) e Ludwig di Baviera riuscì ad acquistarne le sculture per il suo nuovo museo di Monaco. I colori furono subito rilevati dagli stessi scavatori: soprattutto il blu (sugli elmi e sullo sfondo del frontone), il rosso (per le ferite, i cimieri degli elmi e il piano su cui posavano le sculture). Gli studi e le analisi moderne cominciate nel 1982 hanno rivelato la ricchissima decorazione delle vesti. In particolare quella di una figura inginocchiata che tende l’arco con una freccia, un troiano (come si interpreta dal costume), il cosiddetto Paride. L’arco, la freccia e la faretra erano realizzati separatamente in marmo e in bronzo. In piombo erano fusi a parte i riccioli dei capelli ed alcuni ornamenti di cui sono ancora visibili i fori di fissaggio. “Sarebbe impossibile comprendere esattamente questa scultura senza la policromia” afferma Paolo Liverani. L’esame a luce radente ha chiarito che la giacca, forse di cuoio, indossata dall’arcere era priva di maniche e che le braccia erano coperte da una maglia aderente. La cucitura centrale e gli orli della giacca color ocra hanno bordi di colore azzurro. Le maniche della maglia hanno un disegno “a rombi embricati l’uno nell’altro”: linee alternate di verde (con punto centrale rosso), giallo, blu (con “cuore” rosso), le più appariscenti. Sul berretto scita (con le alette legate dietro) restano tracce di rosso di una palmetta a sette foglie con una doppia voluta. La luce radente e gli ultravioletti hanno fatto riconoscere la decorazione dei pantaloni aderentissimi, uno schema a zigzag articolato con un alternarsi di colori che ricorda le maniche della maglia (cinabro, malachite, ocra, azzurrite, ocra). Le differenze dello stato di conservazione sono una guida per identificare i vari colori in base alla resistenza alle intemperie. Le parti più disgregate dovevano essere coperte da ocre, le meglio conservate da colori resistenti come la malachite o azzurrite. Le superfici quasi intatte lo dovevano al cinabro. L’arco di Paride è stato ricostruito dipingendo di cinabro il legno e rivestendolo di lamina d’oro.

Al centro dei combattenti, senza intervenire, sta in piedi Athena con un grande scudo e la lancia (perduta). Sopra il bianco chitone pieghettato e con una fascia centrale verde-gialla-rossa, la dea indossa il manto con una fodera interna rossa, la parte esterna ricoperta da fitte scaglie bordate di ocra gialla scoperte dalle immagini a fluorescenza e agli ultravioletti. Le scaglie alternavano probabilmente una fila rossa e una verde e blu e avevano una costola centrale dipinta a contrasto. Tutto il bordo del manto era orlato di serpentelli vivaci, dipinti di verde, e, come si ricava da uno conservato, l’occhio è minutamente delineato in rosso.

Le figure del frontone Est sono in condizioni più frammentarie del frontone Ovest. La situazione migliore è quella della testa con elmo di un guerriero. Secondo Paolo Liverani già ad occhio nudo “si scorge una rete di macchie più chiare che forma una serie di rombi”.

Come si hanno grandi e grandissimi scultori antichi si può pensare ad artisti che non stendevano semplicemente i colori sulle sculture, pittori non “imbianchini”? “Dalle fonti abbiamo notizia di una specie di ‘Raffaello dell’antichità’, di nome Nikios, che lavorava con Policleto. Ma nulla si è conservato della sua pittura e della pittura antica in generale ad eccezione del caso romano di Pompei” risponde Liverani.

Ci avviciniamo alla fine dei mille anni di storia in mostra, ad un raro ritratto in marmo del primo periodo bizantino, dal Museo della basilica di San Giovanni in Laterano. Probabilmente è l’imperatrice Ariadne, moglie di Zenone I, morta nel 515 dopo Cristo. Ha uno sguardo stralunato, un po’ bovino, dovuto a due pupille dilatate di pietra nera, ma che non rendono giustizia ad una donna che seppe superare un periodo difficilissimo fra assassini, usurpatori, la caduta dell’impero romano d’Occidente. Il busto non è pertinente alla testa ed è più antico di almeno tre secoli. Il volto ha un modellato di “altissima qualità”. Il colore di fondo del cappello-diadema doveva essere rosso porpora come attestano tracce evidenti sulla tesa inferiore. Fra le perle del diadema, in buona parte di restauro, ci sono deboli tracce di doratura.

La mostra si conclude con una novità riservata solo a Roma: il sarcofago con scena pastorale, del 300 circa dopo Cristo, restaurato per l’occasione, originale dei Musei Vaticani e scavato poco fuori Roma, a Tor Sapienza, nel 1838. Sul coperchio a rilievo una scena di caccia e il ritratto del defunto con uno spazio per l’iscrizione che non è mai stata incisa (le tracce di rosso sono ottocentesche). Il sarcofago vero e proprio ha agli estremi la scena del buon pastore e un orante. Fra i due personaggi, pecore che si riposano sotto gli alberi, due caproni che si battono, una casupola per i pastori, lavori nei campi. Lo stato di conservazione è molto buono, il sarcofago è “sostanzialmente completo fino nei dettagli più minuti. Chiaramente visibile la sottile linea rossa con cui l’artista ha ripassato tutti i margini delle figure ed ha delineato i dettagli decorativi fino a disegnare le ciglia di ogni pecora”. Prima del restauro il vello degli animali appariva di un colore bruno molto scuro, ma questo strato si è rivelato una incrostazione che è stata eliminata col laser. E allora è venuta fuori gran parte della decorazione dorata “formata da una sorta di tratteggio realizzato a foglia d’oro”. Sui capelli delle persone, sul vello delle pecore, sulle vesti, sulle tegole della casupola. L’effetto doveva essere sorprendente al lume delle lucerne quando il sarcofago si animava di ombre amiche.

(Goffredo Silvestri)

Notizie utili - I colori del bianco. Mille anni di colore nella pittura antica. Dal 17 novembre al 31 gennaio 2005. Roma, Città del Vaticano. Spazio polifunzionale dei Musei Vaticani (stesso ingresso dei musei, Viale Vaticano). Organizzata dai Musei Vaticani in collaborazione con la Gliptoteca di Monaco e la Ny Calrlsberg Gliptoteca di Copenaghen. A cura di Paolo Liverani, ispettore delle antichità classiche. Guida della mostra e volume di saggi e ricerche sulla policromia, editi da De Luca Editori d’arte.

Orari. Dal 17 novembre al 24 dicembre, dal lunedì al venerdì 8,45-13,45 (ultimo ingresso 12,20). Dal 27 dicembre al 5 gennaio 2005, dal lunedì al venerdì 8,45-16,45 (ultimo ingresso 15,20). Dal 7 gennaio al 31 gennaio, dal lunedì al venerdì 8,45-13,45 (ultimo ingresso 12,20). Il sabato e l’ultima domenica del mese 8,45-13,45 (ultimo ingresso 12,20). I Musei Vaticani sono chiusi la domenica e le festività vaticane (8,25, 26 dicembre; 1 e 6 gennaio).

Ingresso gratuito. Informazioni 06-69883041

 
 
 

Data: novembre 2004

Fonte: Repubblica

Link: http://www.repubblicarts.repubblica.it/reparts/ita/recensionidett.jsp?idContent=882782&idCategory=2462

 

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