CITTA’ DEL VATICANO
- L’imperatore Augusto mentre parla ai legionari, con il braccio destro
disteso nella sua immagine-simbolo più conosciuta, la statua dell’
Augusto di Prima Porta. Ma, ohibò, l’imperatore ha il rossetto sulle
labbra, ciglia e sopracciglia truccate, i capelli tinti di un rosso
mattone. I personaggi a rilievo sulla bianca corazza sono dipinti di
azzurro e rosso. Il manto dalle mille pieghe, avvolto alle reni e che
ricade dal braccio sinistro, è una cascata di rosso porpora. Accanto,
quasi a rassicurarci che la prima visione è solo un miraggio, il vero
Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani si staglia nei due metri e
passa di altezza contro il cielo azzurro di Roma. Ed è come lo si
conosce dal 1863, anno in cui fu scavato quasi integro poco a Nord di
Roma: un marmo non candido, leggermente offuscato per i secoli passati
sotto terra. Nessun colore, all’apparenza.
Ecco allora
l’apparenza finalmente svelata, il bianco del marmo che nell’antichità
greca e romana non è stato mai bianco è presentato con una gamma di
colori, una trama di colori inimmaginabili solo ai nostri occhi moderni,
ipnotizzati paradossalmente dalla concezione che si è imposta col
neoclassicismo, da Winckelmann a Canova, del bianco colore del bello
ideale. Con la complicità però degli stessi archeologi che hanno
perpetuato “uno dei più grandi equivoci della storia dell’arte antica”.
Semplicemente ignorando o negando la policromia della scultura antica
classica. “Ancora oggi - scrive Hermann Born - non solo i visitatori di
musei e di mostre e i milioni di turisti nei paesi mediterranei non
vengono informati correttamente e in modo aggiornato sul tema
‘policromia della scultura e dell’architettura nel mondo antico’”. E
arriva ad affermare che “la realtà della pittura antica su pietra è
ancora oggi ignorata o negata da molti archeologi”.
Proprio quello che
non vuole fare questa mostra ai Musei Vaticani dall’obiettivo dichiarato
nel titolo I colori del bianco. Mille anni di colore nella pittura
antica, aperta dal 17 novembre al 31 gennaio 2005 nello spazio
polifunzionale vicino all’ingresso dei Musei Vaticani (e visitabile
gratuitamente). Una collaborazione dei “Vaticani”, diretti da Francesco
Buranelli, con la Gliptoteca di Monaco e la Ny Calrlsberg Gliptoteca di
Copenaghen dove la mostra è già stata presentata. Curatore
dell’esposizione vaticana Paolo Liverani, ispettore delle antichità
classiche dei “Vaticani”. Guida della mostra edita da De Luca come il
volume scientifico con saggi e ricerche. Una interessantissima mostra,
sconvolgente delle nostre immagini tradizionali dell’arte antica, che
riunisce 37 pezzi piccoli o grandi, fra originali, copie, calchi,
ricostruzioni, in marmo, pietra, terracotta, gesso, resina, dal VI
secolo avanti Cristo (l’arcaismo greco) al VI dopo Cristo della tarda
antichità. Sono materiali greci, etruschi, romani, bizantini. Più di
mille anni di storia.
Il marmo antico
viene presentato con gli “effetti speciali”, una scelta che non vuole
avere la pretesa di soluzioni definitive, tanti e tali sono gli aspetti
da chiarire in questa materia dalla documentazione molto frammentaria,
ma basati in ogni caso su risultati oggettivi ottenuti con moderne
indagini scientifiche. Nel 1982 l’università di Monaco ha avviato un
progetto di ricerca sulla policromia delle sculture antiche condotte
sugli originali, che si è sempre più sviluppato. Dal 1998 al 2003 i
Musei Vaticani hanno studiato, restaurato e ricostruito la policromia
dell’ Augusto di Prima Porta. Con sorprese.
Al momento della
scoperta nella villa di Livia, terza moglie di Augusto, la villa alle
“Galline bianche” lungo la Flaminia, la scultura del I secolo dopo
Cristo aveva fatto scalpore anche per le tracce di vivace policromia che
si erano poi attenuate nel tempo. Ma l’ultimo restauro ha permesso di
recuperare le tracce di colore sotto la polvere e le incrostazioni
“fortunatamente mai del tutto rimosse” nota Paolo Liverani. Ne è seguita
tutta una serie di analisi scientifiche, esame morfologico dei campioni,
esame mineralogico-petrografico, immagini all’ultravioletto,
all’infrarosso, al microscopio a scansione elettronica che sono serviti
per determinare “estensione, tipo e composizione dei colori” e sulla
loro base è stato ricostruito un calco in gesso con relativi colori.
Alcuni dettagli minori della policromia sono basati su ipotesi e alcune
sfumature di colore sono per approssimazione, ma secondo Paolo Liverani,
nell’insieme la ricostruzione dà una buona idea di come doveva essere
l’originale. Si è cercato di evitare concezioni correnti, “gusto
estetico e cromatico contemporaneo”.
Così è risultato
che i colori utilizzati sono solo sei o sette. L’azzurro (“fritta
alessandrina” o “ blu egiziano) per parti di divinità (Sole, Marte,
Artemide), personificazioni di popoli, soldati, barbari che ornano la
corazza, le strisce di cuoio della corazza di Augusto. Il rosso carminio
come la lacca di garanza, un rosso organico estratto dalla radice della
robbia, che colora il manto dell’imperatore, una parte delle stesse
strisce di cuoio, vesti di personaggi sulla corazza. Un rosso a base di
ocra, a volte mescolato col carminio, per la tunica dell’imperatore, le
labbra (il “rossetto”, tracce lievissime, “quasi ombre” come per gli
occhi). Un bruno (“terra di Siena”) per esempio per i finimenti in cuoio
dei cavalli del carro del Sole, i calzari di Marte, le insegne romane.
Un bruno, più chiaro del precedente, è stato utilizzato per tutte le
capigliature, dell’imperatore e dei personaggi sulla corazza. Il giallo
(ossidi di piombo) solo sulle frange.
Dal punto di vista
della composizione dei colori - spiega Paolo Liverani - la novità più
importante è l’identificazione di una lacca organica per il rosso che ci
fa capire un altro aspetto della policromia antica: i colori dovevano
essere una aggiunta di preziosità alle sculture in marmo, non dovevano
nascondere le preziosità del marmo. L’effetto di questa lacca “doveva
essere piuttosto trasparente, dunque più adatto a rendere la porpora
rispetto agli ossidi di ferro. Per la sua finezza questo tipo di colore
non si limita a coprire il marmo, ma lascia riconoscere almeno in parte
la trasparenza della sua struttura cristallina”. E nel caso dell’
Augusto di Prima Porta si tratta della migliore qualità del marmo di
Paros, certamente fra le più costose. Anche il marmo che è risultato
agli esami privo di colore non è soltanto marmo. Gli ultravioletti hanno
rivelato su queste parti tracce di caseina e allora si può pensare che
il derivato del latte sia stato usato non solo come legante dei colori,
ma, steso su tutta la superficie della statua prima dei colori, come
sostanza che facilitava la presa del colore, come una preparazione. E la
caseina sulle parti che sarebbero rimaste bianche “conferiva
probabilmente un aspetto più caldo”.
L’ Augusto di
Prima Porta è quasi integro, ma questo non significa che non sia
stato restaurato. Anche qui con sorprese. Era già noto che in antico
qualcuno era intervenuto sul braccio destro e la gamba sinistra. Ora si
è scoperto che ci sono stati altri interventi sulla scultura e, ancora
più curioso, sulla policromia. In particolare sulla tunica di Marte si
sovrappongono due strati: “Il colore più antico è piuttosto raffinato,
un rosso-arancione composto di ocra rossa, minio e cinabro; il più
recente un’ocra rossa a base di ossidi di ferro e di piombo, questi
ultimi in una percentuale più alta che nello strato più antico”. Ancora,
sulle frange della corazza di Augusto un colore giallo è ridipinto sulla
fritta alessandrina azzurra: un colore originale di buona fattura è
stato sostituito da uno di composizione meno nobile. L’azzurro era stato
usato sulle frange di fili di bronzo della corazza, ma, caduto in parte
questo colore, si è preferito cambiare “non solo perché il giallo era
più economico e facile da stendere, ma anche per suggerire l’oro (un
caso unico nella statua)”. Questo dettaglio fa pensare ad un intervento
in età imperiale avanzata “quando l’uso dell’oro nella policromia è
assai diffuso”.
Ma perché fra tutti
questi colori la pelle del volto di Augusto e il fondo della corazza
sono bianchi, al naturale del marmo, come hanno confermato le indagini
scientifiche? La spiegazione va probabilmente cercata nell’altissimo
valore politico della scena rappresentata sulla corazza. Si tratta del
recupero (senza guerra, per via diplomatica) delle insegne che
l’esercito romano guidato da Crasso aveva perduto nel 53 avanti Cristo
nella battaglia di Carre ad opera dei Parti, l’indomito popolo
dell’altipiano iranico (che ebbe fra i suoi re Mitridate, e che fu per
Roma fonte di lunghi scontri e problemi). Nel 20 Augusto era riuscito a
farsi restituire le insegne rimediando in parte a quella vergogna e
sulla corazza la restituzione doveva essere la scena immediatamente
percepibile dall’ osservatore, con tutti i dettagli. Una corazza dipinta
in modo da ricordare il bronzo, cioè di colore blu ravvivato da
decorazioni in rame o materiale prezioso, avrebbe “soffocato” la scena,
avrebbe distratto dai particolari. Stessa valutazione per il volto
dell’imperatore: pelle bianca per far risaltare le parti più importanti:
occhi, bocca, capelli. A questo punto dove andrà l’ Augusto di Prima
Porta “a colori” dopo la mostra? “Rimarrà una sperimentazione - ha
risposto Paolo Liverani -. Non avremo il coraggio di metterlo accanto
all’originale quando tornerà nel Museo Chiaramonti, ai Vaticani”.
L’ Augusto è
l’opera della mostra che attira maggiormente l’attenzione, ma il primo
impatto i visitatori l’hanno con un “terribile” leone in pietra da
Loutraki, Corinto, del 550-570 avanti Cristo, in realtà un calco in
resina dalla Gliptoteca di Copenhagen con tentativo di ricostruzione
della policromia. Corpo in ocra giallo, criniera blu notte come la punta
della coda, baffi dipinti in rosso come gli occhi gonfi, bocca e denti
bianchi, due grossi punti rossi fra gli occhi azzurri. “Se i visitatori
superano questo shock, possono procedere tranquillamente nella mostra”
commenta Paolo Liverani.
Subito dopo si è
accolti da una sorridente (nonostante la mutilazione della mano
sinistra) Kore col peplo dal Museo dell’Acropoli di Atene del
530-520 avanti Cristo (calco policromo in resina, dal Museo di Monaco,
con decorazione dipinta nel 1923-24). In realtà non si tratta di una
Kore, parola greca che significa “fanciulla” o “vergine” (né di un
peplo), come era stata battezzata al momento del ritrovamento in
frammenti nel 1886 e questo perché era andato perso (o meglio non era
rilevabile) un elemento essenziale, il colore. Recentemente, grazie ad
una forte luce radente, sotto la cintura della cosiddetta Kore
sono apparsi i graffiti preparatori di una serie di rosette lungo due
fasce verdi verticali che scendono fino all’orlo inferiore della veste.
Al centro sono state scoperte per la prima volta una serie di
raffigurazioni di piccole dimensioni di colore rosso: un cavaliere, una
sfinge, uno stambecco, un leone, probabilmente un cinghiale. Questo
fregio animalistico unito ad una particolare sopravveste simbolo del
potere, fa supporre una divinità protettrice della città come Athena per
Atene o piuttosto Artemide. Nella mano destra c’è un foro forse
destinato ad una lancia o a un gruppo di frecce. La sinistra reggeva
forse uno scudo o un arco.
I colori erano
riservati a rappresentazioni di divinità, principi? “No assolutamente -
risponde Paolo Liverani -. La dimostrazione è proprio di fronte alla
cosiddetta ‘Kore’: la stele di Aristione posta nel 510 avanti Cristo
circa, sulla tomba di un cittadino morto in guerra combattendo
valorosamente”. L’originale è nel Museo nazionale di Atene qui c’è un
calco policromo in resina. Aristione, in piedi, impugna una lunga asta
(forse una lancia, di colore blu come l’elmo e gli schinieri). La tunica
corta e leggera è di colore bianco, sopra una corazza di cuoio giallo
ocra con decorazioni giallo-verdi. Sull’originale, ancora con una forte
luce radente si è riusciti a distinguere sullo spallaccio, incisa o a
lievissimo rilievo, una stella con 16 raggi e più in basso una testa di
leone dalla criniera fiammeggiante. La superficie dei raggi è ben
conservata il che fa pensare che sia stata protetta da un colore
resistente, il blu, mentre il disco centrale della stella era rosso.
L’elemento inferiore dello spallaccio ha ancora oggi tracce rosso ocra.
La criniera ben conservata fa pensare al verde anch’esso resistente.
I colori non sono
solo per le persone comuni, ma servono anche a risparmiare. Nella mostra
c’è la stele di una donna, Paramythion (calco policromo in resina
dell’originale a Monaco), databile intorno al 370 avanti Cristo e
scoperta nei dintorni di Atene. Ha scolpito solo il vaso per l’acqua
nuziale. Tutto il resto della decorazione (anche la voluta del vaso,
anche il nome della defunta) è dipinto con colori ancora riconoscibili.
Dopo i calchi,
tanti originali etruschi da Cerveteri e Vulci, fra i pezzi migliori del
Museo Gregoriano Etrusco, sempre dei “Vaticani”. Un’urna cineraria, una
antefissa a testa femminile (la decorazione al termine di una fila di
coppi di un tetto), l’antefissa della Signora degli animali, il
torso di un guerriero con corazza, un acroterio con cavallo alato (una
scultura che faceva parte di un frontone di tempio e anche qui è
presentata in alto per far apprezzare l’utilità pratica, di visibilità
dei colori), una testa dono votivo di un fedele. Per l’urna la
policromia è decisiva per la resa dei dettagli altrimenti “l’immagine
sarebbe piatta e scarsamente comprensibile”. La policromia
dell’antefissa a testa femminile da Cerveteri, della fine del VI secolo
avanti Cristo, è quasi perfettamente conservata: incarnato in bianco
uniforme, labbra in rosso, contorni degli occhi, sopracciglia, pupille
in nero, iride in grigio sfumato, capelli rossi con linee ondulate,
boccoloni e due lunghe ciocche dietro le orecchie. Diadema in testa con
doppia fila di foglie verdi. Gli orecchini sono a disco con rosetta
dipinta al centro. Il cavallo (inizio del V secolo) ha un modellato e
una decorazione dipinta di grande finezza con una tavolozza essenziale
(rosso, nero, bianco avorio). La testa era di serie, veniva prodotta con
una matrice, ma personalizzata col colore. Il rosso vivo dell’incarnato
è caratteristico delle figure maschili, in nero sono dipinti i capelli,
le sopracciglia e perfino i peli della barba resi visibili dal restauro
fatto in occasione della mostra. La testa stessa viene presentata per la
prima volta. Tutte queste sculture sono in terracotta, un materiale che
da tempo siamo abituati a vedere “a colori” forse perché povero e quindi
siamo ben disposti a vederlo impreziosito. Per il nobile marmo vediamo
il colore come un binomio quasi contro natura.
In mostra c’è anche
un altro imperatore romano, Caligola. Il suo è uno dei ritratti che
meglio conservano “le delicate tracce della policromia originale” spiega
Paolo Liverani e lo vediamo accanto al calco policromo in resina (tutti
e due vengono dalla Gliptoteca di Copenhagen). Ad occhio nudo si
riconosce un tono bruno nerastro nella pupilla, nelle ciglia e
sopracciglia dell’occhio sinistro, in diversi punti dei capelli (nero
d’ossa come pigmento) e ancora nelle basette. “Qualche macchiolina di
incarnato” sul collo e vicino all’occhio sinistro: ocra “sovrapposta ad
uno strato di preparazione bianco”. Tracce di rosso fra le labbra, nelle
ghiandole lacrimali e sull’orlo delle palpebre: lacca di garanza con
uovo per legante.
Fra le sorprese
della mostra i visitatori devono mettere in conto anche trovare colori
non solo su statue, su sculture, ma sulle strutture dei palazzi, sulle
lastre di rivestimento (sempre marmo) come dimostrano a Roma le lastre
della parete di fondo della cosiddetta Aula del Colosso, la
statua di Cesare, più probabilmente di Augusto, di cui ci rimangono solo
un paio di frammenti e il basamento. Ė l’aula posta sul fondo del foro
di Augusto, a sinistra del tempio di Marte Ultore. Un luogo
particolarmente onorato perché Paolo Liverani ci ricorda che qui furono
riportate “le famose insegne militari restituite dai Parti”. Secondo le
indagini della soprintendenza del Comune di Roma le lastre erano dipinte
come un ampio e pesante panneggio a fondo blu con un disegno di festoni
e palmette rosse. Sotto al rosso i ricercatori dei Musei Vaticani hanno
trovato uno strato preparatorio giallo di ossido di piombo, sotto al
quale tracce di “nero di vite” fanno parte del disegno preliminare. Il
Colosso si stagliava ad ogni modo contro un fondo “dai colori
decisi e carichi”.
Quanto sia lontana
la nostra mentalità da quella degli antichi può essere reso dal dramma
Elena di Euripide del 412 avanti Cristo e citato da Paolo
Liverani. A Troia non è stata rapita Elena in carne ed ossa, ma una
statua con le sue fattezze. La bellissima donna continua però ad avere
molti motivi per piangere sul suo destino fino al punto da invocare di
perdere la propria bellezza “come si perde il colore di una statua”. In
parole povere “la statua bianca era brutta”.
Ecco allora il
complesso più numeroso di calchi policromi in resina, presentato in
mostra e quello più “provocatorio”: una serie di “effetti speciali”
degni degli abiti e dei maglioni di un Missoni (o forse viceversa). Si
tratta dei personaggi del frontone Ovest del tempio di Aphaia nell’isola
greca di Egina, del 500-490 avanti Cristo. Nel 1811 furono scoperti i
due frontoni (che hanno entrambi per soggetto la guerra di Troia) e
Ludwig di Baviera riuscì ad acquistarne le sculture per il suo nuovo
museo di Monaco. I colori furono subito rilevati dagli stessi scavatori:
soprattutto il blu (sugli elmi e sullo sfondo del frontone), il rosso
(per le ferite, i cimieri degli elmi e il piano su cui posavano le
sculture). Gli studi e le analisi moderne cominciate nel 1982 hanno
rivelato la ricchissima decorazione delle vesti. In particolare quella
di una figura inginocchiata che tende l’arco con una freccia, un troiano
(come si interpreta dal costume), il cosiddetto Paride. L’arco,
la freccia e la faretra erano realizzati separatamente in marmo e in
bronzo. In piombo erano fusi a parte i riccioli dei capelli ed alcuni
ornamenti di cui sono ancora visibili i fori di fissaggio. “Sarebbe
impossibile comprendere esattamente questa scultura senza la policromia”
afferma Paolo Liverani. L’esame a luce radente ha chiarito che la
giacca, forse di cuoio, indossata dall’arcere era priva di maniche e che
le braccia erano coperte da una maglia aderente. La cucitura centrale e
gli orli della giacca color ocra hanno bordi di colore azzurro. Le
maniche della maglia hanno un disegno “a rombi embricati l’uno
nell’altro”: linee alternate di verde (con punto centrale rosso),
giallo, blu (con “cuore” rosso), le più appariscenti. Sul berretto scita
(con le alette legate dietro) restano tracce di rosso di una palmetta a
sette foglie con una doppia voluta. La luce radente e gli ultravioletti
hanno fatto riconoscere la decorazione dei pantaloni aderentissimi, uno
schema a zigzag articolato con un alternarsi di colori che ricorda le
maniche della maglia (cinabro, malachite, ocra, azzurrite, ocra). Le
differenze dello stato di conservazione sono una guida per identificare
i vari colori in base alla resistenza alle intemperie. Le parti più
disgregate dovevano essere coperte da ocre, le meglio conservate da
colori resistenti come la malachite o azzurrite. Le superfici quasi
intatte lo dovevano al cinabro. L’arco di Paride è stato ricostruito
dipingendo di cinabro il legno e rivestendolo di lamina d’oro.
Al centro dei
combattenti, senza intervenire, sta in piedi Athena con un grande scudo
e la lancia (perduta). Sopra il bianco chitone pieghettato e con una
fascia centrale verde-gialla-rossa, la dea indossa il manto con una
fodera interna rossa, la parte esterna ricoperta da fitte scaglie
bordate di ocra gialla scoperte dalle immagini a fluorescenza e agli
ultravioletti. Le scaglie alternavano probabilmente una fila rossa e una
verde e blu e avevano una costola centrale dipinta a contrasto. Tutto il
bordo del manto era orlato di serpentelli vivaci, dipinti di verde, e,
come si ricava da uno conservato, l’occhio è minutamente delineato in
rosso.
Le figure del
frontone Est sono in condizioni più frammentarie del frontone Ovest. La
situazione migliore è quella della testa con elmo di un guerriero.
Secondo Paolo Liverani già ad occhio nudo “si scorge una rete di macchie
più chiare che forma una serie di rombi”.
Come si hanno
grandi e grandissimi scultori antichi si può pensare ad artisti che non
stendevano semplicemente i colori sulle sculture, pittori non
“imbianchini”? “Dalle fonti abbiamo notizia di una specie di ‘Raffaello
dell’antichità’, di nome Nikios, che lavorava con Policleto. Ma nulla si
è conservato della sua pittura e della pittura antica in generale ad
eccezione del caso romano di Pompei” risponde Liverani.
Ci avviciniamo alla
fine dei mille anni di storia in mostra, ad un raro ritratto in marmo
del primo periodo bizantino, dal Museo della basilica di San Giovanni in
Laterano. Probabilmente è l’imperatrice Ariadne, moglie di Zenone I,
morta nel 515 dopo Cristo. Ha uno sguardo stralunato, un po’ bovino,
dovuto a due pupille dilatate di pietra nera, ma che non rendono
giustizia ad una donna che seppe superare un periodo difficilissimo fra
assassini, usurpatori, la caduta dell’impero romano d’Occidente. Il
busto non è pertinente alla testa ed è più antico di almeno tre secoli.
Il volto ha un modellato di “altissima qualità”. Il colore di fondo del
cappello-diadema doveva essere rosso porpora come attestano tracce
evidenti sulla tesa inferiore. Fra le perle del diadema, in buona parte
di restauro, ci sono deboli tracce di doratura.
La mostra si
conclude con una novità riservata solo a Roma: il sarcofago con scena
pastorale, del 300 circa dopo Cristo, restaurato per l’occasione,
originale dei Musei Vaticani e scavato poco fuori Roma, a Tor Sapienza,
nel 1838. Sul coperchio a rilievo una scena di caccia e il ritratto del
defunto con uno spazio per l’iscrizione che non è mai stata incisa (le
tracce di rosso sono ottocentesche). Il sarcofago vero e proprio ha agli
estremi la scena del buon pastore e un orante. Fra i due personaggi,
pecore che si riposano sotto gli alberi, due caproni che si battono, una
casupola per i pastori, lavori nei campi. Lo stato di conservazione è
molto buono, il sarcofago è “sostanzialmente completo fino nei dettagli
più minuti. Chiaramente visibile la sottile linea rossa con cui
l’artista ha ripassato tutti i margini delle figure ed ha delineato i
dettagli decorativi fino a disegnare le ciglia di ogni pecora”. Prima
del restauro il vello degli animali appariva di un colore bruno molto
scuro, ma questo strato si è rivelato una incrostazione che è stata
eliminata col laser. E allora è venuta fuori gran parte della
decorazione dorata “formata da una sorta di tratteggio realizzato a
foglia d’oro”. Sui capelli delle persone, sul vello delle pecore, sulle
vesti, sulle tegole della casupola. L’effetto doveva essere sorprendente
al lume delle lucerne quando il sarcofago si animava di ombre amiche.
(Goffredo
Silvestri)
Notizie utili
- I colori del bianco. Mille anni di colore nella pittura antica.
Dal 17 novembre al 31 gennaio 2005. Roma, Città del Vaticano. Spazio
polifunzionale dei Musei Vaticani (stesso ingresso dei musei, Viale
Vaticano). Organizzata dai Musei Vaticani in collaborazione con la
Gliptoteca di Monaco e la Ny Calrlsberg Gliptoteca di Copenaghen. A cura
di Paolo Liverani, ispettore delle antichità classiche. Guida della
mostra e volume di saggi e ricerche sulla policromia, editi da De Luca
Editori d’arte.
Orari. Dal 17
novembre al 24 dicembre, dal lunedì al venerdì 8,45-13,45 (ultimo
ingresso 12,20). Dal 27 dicembre al 5 gennaio 2005, dal lunedì al
venerdì 8,45-16,45 (ultimo ingresso 15,20). Dal 7 gennaio al 31 gennaio,
dal lunedì al venerdì 8,45-13,45 (ultimo ingresso 12,20). Il sabato e
l’ultima domenica del mese 8,45-13,45 (ultimo ingresso 12,20). I Musei
Vaticani sono chiusi la domenica e le festività vaticane (8,25, 26
dicembre; 1 e 6 gennaio).
Ingresso gratuito.
Informazioni 06-69883041