Il colore blu? L’inventarono gli antichi egizi
 

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QUESTA COLORAZIONE NON SI TROVA FACILMENTE IN NATURA: NELLA TERRA DEI FARAONI LA SOLUZIONE VENNE DA UN COMPOSTO ARTIFICIALE IL CUI COMPONENTE BASE E’ UN TETRASILICATO DI CALCIO E RAME  

 

 
 

FIN dall’alba della civiltà la preparazione di pigmenti blu costituì un problema: si tratta infatti di una gamma cromatica rara in natura e non ottenibile dalla miscela di tonalità diverse, essendo il blu (insieme con il rosso e il verde) uno dei tre colori fondamentali nella sintesi additiva. Gli artisti preistorici fecero fronte a questa necessità sostituendolo con impasti dalle tinte affini: ad esempio il nero di carbone in alcune pitture rupestri appare come blu scuro. Furono gli antichi Egizi a risolvere il problema, producendo il primo pigmento sintetico in assoluto: il Blu Egizio. Col Blu Maya e il lapislazzuli, completa la triade dei pigmenti blu più diffusi nell'antichità. Il Blu Egizio è un composto artificiale policristallino il cui componente principale, artefice del colore, è un tetrasilicato di calcio e rame. Il suo equivalente naturale è la cuprorivaite, minerale molto raro descritto per la prima volta nelle lave del Vesuvio. Nella sua struttura, ioni calcio e rame con carica positiva collegano strati di tetraedri silicio-ossigeno carichi negativamente. Lo ione rame si comporta da cromoforo, conferendo una colorazione blu alla sostanza. Il pigmento comprende anche altre fasi minerali, tra le quali quarzo, pirosseni (ad esempio la wollanstonite) e ossidi di rame (tenorite o cuprite). Piuttosto frequenti sono anche fasi vetrose, che occupano gli interstizi tra i cristalli delle altre fasi. L'uso del Blu Egizio è documentato già a partire dalla IV Dinastia (III millennio a.C.), anche se la sua scoperta probabilmente è ancora più remota. Splendidi esempi sono conservati al famoso museo del Cairo, ma se ne possono osservare anche presso il Museo Egizio di Torino. Dall'Egitto il pigmento si diffuse ad oriente, raggiungendo Creta e l'antica Grecia, per poi estendersi a tutto l'Impero Romano, dove fu utilizzato dalla Gran Bretagna fino all'Africa settentrionale e all'Asia minore. Nel suo momento di massima diffusione, era commercializzato sotto nomi e prezzi diversi a seconda del colore più o meno intenso, sintomatico della quantità variabile di cuprorivaite (dal 20 all'80%) in esso contenuta. Dopo la caduta dell'Impero, la sua diffusione regredì enormemente ad eccezione di alcune aree bizantine, ove probabilmente fu dato fondo a scorte prodotte in precedenza. La scomparsa del Blu Egizio nel mondo occidentale avvenne su larga scala in un periodo relativamente breve, intorno al V-VI secolo d.C.. Eppure la sua tecnica di produzione fu descritta nel I sec. a.C. da Vitruvio, che l'osservò visitando una fabbrica del vetro a Pozzuoli, vicino Napoli. I suoi scritti raccontano nel dettaglio come il pigmento (chiamato coeruleum) si formi a seguito della cottura in fornace ("per effetto del veemente calore") di piccole pallottoline costituite da rame, fior di nitro e sabbia, precedentemente macinati ed inumiditi. Il rame veniva aggiunto direttamente come limatura del metallo o come costituente di altre fasi minerali (per esempio la malachite). Studi recenti hanno stabilito che il fior di nitro (flos nitri) va identificato nel Natron, miscela di sali - principalmente carbonati e bicarbonati di sodio - concentratisi per evaporazione in particolari depressioni del terreno (famosa quella di Wadi Natrun, in Egitto, dal quale il composto prende il nome). La sua azione era quella di "fondente": esso abbassa il punto di fusione della silice (1710° C) contenuta nella sabbia, consentendo la formazione di cuprorivaite alle più modeste temperature (900° C) raggiunte in fornace. Gli egizi erano soliti macinare e rimettere in forno i prodotti della prima cottura, reiterando ogni volta la sintesi di cuprorivaite e caricando di conseguenza il colore del pigmento. I romani, invece, si limitavano ad un solo passaggio in fornace, come risulta dall'esame della tessitura di pallottoline di Blu Egizio di epoca romana, caratterizzata da grani di sabbia quarzosa ricoperti da cristalli neoformati di cuprorivaite. Le pallottoline, una volta cotte, venivano macinate ed utilizzate come pigmento. Pare invece certo che i campioni più duri e meno porosi fossero utilizzati direttamente per scolpire statuette o piccoli amuleti; è probabile che talvolta si utilizzassero calchi per modellare l'impasto in forme di oggetti decorativi già prima della cottura. Quando, agli albori del secolo scorso, i primi studiosi provarono a ripercorrere passo passo il procedimento descritto da Vitruvio, si resero conto che dalla fornace usciva un composto verdastro, diverso dal Blu Egizio: la cosiddetta "fritta verde", anch'essa utilizzabile come pigmento. Fu subito evidente che qualcosa non era andato per il verso giusto. L'arcano fu risolto solo negli anni successivi: Vitruvio ignorava che la sabbia aggiunta all'impasto, estratta dal fiume Volturno, contenesse oltre alla silice anche una certa quantità di calcite, composto indispensabile per la formazione di cuprorivaite. L'omissione fu perpetrata anche dai trascrittori medievali, facendo sì che in caso in impiego di sabbia solo silicea, la ricetta tramandata non funzionasse. E' opinione comune, tra gli studiosi, che proprio tale mancanza abbia contribuito, dopo la caduta dell'Impero Romano, al rapido declino nella produzione ed impiego del Blu Egizio.

 

 

Data: 14/9/2005

Autore: Roberto Giustetto Università di Torino

Fonte: la Stampa

Link: http://www.lastampa.it/_settimanali/tst/estrattore/tutto_scienze/art10.asp

 
 

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