Home Page L'Occhio di Deimos Home Page Space Freedom Avventura marziana Contatta Alessio Feltri COINCIDENZE parte prima di Alessio Feltri
|
Uno degli aspetti più sorprendenti del nostro tempo è il progressivo sfaldarsi del metodo scientifico universalmente accettato sotto i possenti colpi di maglio del mondo reale. Le distorsioni accumulate dall’occultamento delle informazioni nell’ultimo cinquantennio hanno creato infatti una situazione anomala, di cui cercherò di analizzare le cause e le conseguenze. La causa scatenante è senz’altro stata la guerra fredda, con i grandi blocchi impegnati a costringere gli scienziati a passare sotto le forche caudine dei rispettivi servizi segreti. Mi si obietterà che la cosa avrebbe dovuto finire nel 1989; il problema è che il muro di Berlino è caduto, ma i mattoni sono rimasti in piedi. Per capire quanto la situazione sia seria, immaginate se a Gesù fosse stato ordinato di predicare al popolo senza parlare di Dio: i fedeli sarebbero tornati dal discorso della montagna parlando come i personaggi di Woody Allen. Ma l’aspetto più paradossale è un altro, e cioè l’inversione epistemologica. Il parolone cela un significato assai semplice, che cercherò di evidenziare con la massima chiarezza possibile. Tutti sappiamo quali devono essere i requisiti di un’analisi scientifica, dalla riproducibilità del fenomeno al rigore della metodologia di analisi, dalla concordanza con le osservazioni alla formulazione di modelli verificabili ecc. ecc. Tutto quello che non ricade dentro i confini di quest’area ben delimitata ricade in una vasto spazio grigio, quello che io definisco il mondo delle coincidenze. Il vero problema è dato dalle distorsioni sociali dell’analisi scientifica, che hanno diviso il mondo degli scienziati in sottoclassi per lo più conflittuali. E’ così nato il concetto di scienza ufficiale, per lo più identificata dall’ombrello della pubblicazione dei lavori su riviste “autorevoli”, contrapposta al limbo degli stregoni, che hanno finito inevitabilmente per scivolare nell’immaginario collettivo al livello di meri cronisti del mondo delle coincidenze. Ma dov’è l’inversione? Semplice: l’occultamento delle informazioni ha fatto sì che ogni nuova pubblicazione fosse afflitta o dalla mancanza di conoscenze o dall’impossibilità di citarle. Contemporaneamente ogni nuova affermazione veniva rapidamente divulgata ed acquisita in maniera acritica, essendo basata la sua veridicità solamente sull’autorevolezza delle fonti, in aperto contrasto con il metodo scientifico corretto. Questo ha innalzato artificiosamente il livello di soglia per l’ingresso di nuove idee, essendo molto più comodo per qualsiasi scienziato rimanere nel quieto ambito dell’universalmente accettato, piuttosto che avventurarsi in ricerche donchisciottesche. E qui troviamo il paradosso: le verità scientifiche conclamate, specialmente negli ambiti, come quello astrofisico, di cui è difficoltosa la riproducibilità in laboratorio, vengono ogni giorno contraddette dalle osservazioni e spesso non sono verificate neppure parzialmente, per cui accettarle a pieno titolo nella conoscenza collettiva è un processo del tutto affine alla superstizione. Dall’altra parte l’aumento esponenziale delle informazioni disponibili ha elevato enormemente il numero delle coincidenze, fino a dar loro quasi il carattere di campione statistico, e quello che è più significativo è che ormai le coincidenze sono verificabili, riproducibili e conducono frequentemente alla formulazione di modelli previsionali più accurati e veritieri di quelli tradizionali, in quanto sottoposti ad affinamenti progressivi sulla base di una pragmatica metodologia di prova ed errore o seguendo i dettami della Teoria del Caos. Per spiegare meglio come si sia originata l’inversione epistemologica, possiamo chiederci come mai non si sia ancora pervenuti alla formulazione della GTU, quella Grande Teoria Unificata che avrebbe dovuto legare tra loro tutte le principali forme di energia dell’Universo, e la mia personalissima soluzione del problema è consistita nella formulazione della TMM, e cioè la Teoria del Macaco Mancante.
TEORIA DEL MACACO MANCANTE
Tra il 1953 ed il 1955 un gruppo di biologi era impegnato in Giappone nello studio di una comunità di macachi. Durante la giornata gli scienziati gettavano sul terreno dei chicchi di grano per convincere i macachi a restare nei paraggi. Mentre gli animali passavano la maggior parte del loro tempo a pulire i chicchi di grano dalla sabbia per poterli mangiare (e presumibilmente indirizzando verso gli scienziati dei pensieri non proprio benevoli), un macaco femmina di nome Imo restava seduta grattandosi la testa. Ad un certo punto Imo si alzò, prese una manciata di pietrisco e la lasciò cadere in una pozzanghera: il pietrisco precipitò sul fondo e Imo raccolse tranquillamente i semi che galleggiavano. In capo a pochi anni il 90% dei macachi aveva imparato questa metodologia, e tutto grazie ad Imo, che non era un maschio alfa, bensì una semplice femmina di rango subordinato. Da questa simpatica storiella ricaverei un primo assunto, che definirei Principio di Indeterminazione di Feltri : “Dato un gruppo di primati di qualsivoglia dimensione, non è prevedibile a priori da quale di essi potrà venire un apporto utile alla conoscenza collettiva”. Dato che organismi istituzionali come la NASA e simili selezionano invece aprioristicamente i propri componenti e poi celano le informazioni agli altri, violano inevitabilmente questo principio con l’ovvia conseguenza di passare gran parte del loro tempo a spulciare chicchi di grano. Ovviamente la Teoria del Macaco Mancante non ci dice come conciliare il progresso scientifico con la sicurezza nazionale o la protezione dei brevetti, però ci spiega come sia stato possibile che la scienza si sia trasformata in superstizione e come solo attraverso la connessione delle coincidenze sia possibile uscirne elegantemente. Per chiarire meglio questo concetto dovrò derogare dalle mie consuete analisi marziane, senza le quali sarebbe stato comunque assai arduo individuare quelle coincidenze che riterrei bisognose di doverosi approfondimenti da parte della comunità scientifica (e non).
COINCIDENZA N.1 – CONTINENTI ALLA DERIVA
Nel quadro delle mie ricerche sui meccanismi di formazione dei crateri, avevo preso in considerazione anche quelli terrestri, specialmente quei pochi che avevano dimensioni paragonabili a quelle riscontrabili su altri corpi planetari del sistema solare. Da una prima scrematura ho tratto due casi, il primo quello del cratere Richat in Mauritania ed il secondo quello del cratere Chicxulub a cavallo della penisola dello Yucatan, principale indiziato della scomparsa dei dinosauri.
Richat è interessante per molti motivi, che cercherò di sintetizzare:
1) la sua struttura ad anelli concentrici regolari esclude sia la genesi da impatto che l’eruzione vulcanica; 2) gli anelli esterni in quarzite e le aree limitrofe ricche di kimberlite (diamanti) testimoniano della formazione in un regime di temperatura di almeno 1200°C in presenza di pressioni (oltre 50.000 atmosfere) abitualmente ipotizzabili solo in strati magmatici profondi; 3) la presenza di anelli secondari più piccoli appare incompatibile con il recupero di un concetto per altro ormai in disuso come quello di geosinclinale e non trova spiegazioni balistiche per via dell’estrema regolarità degli anelli.
In sintesi Richat non è stato causato né da un meteorite, né da un’eruzione vulcanica né da fenomeni di subsidenza o sedimentazione. A voler essere costruttivi potremmo al più ipotizzare l’impatto come elemento scatenante di un fenomeno di più ampie proporzioni, presumibilmente legato a risalite magmatiche in presenza di forti campi elettromagnetici. Indipendentemente dai meccanismi di formazione Richat, del diametro di circa 38 Km., è comunque un cratere di grande bellezza se osservato dallo spazio, come potete vedere dalla foto seguente.
Diverso è il motivo per cui mi sono interessato a Chicxulub e cioè studiare i meccanismi per cui un’affermazione “scientifica” suffragata da niente avesse potuto trasformarsi in un assioma incontestabile. Tutto è nato dal fatto che solo un cratere di quel diametro (180 Km.) appariva compatibile con l’area di diffusione dello strato di iridio riscontrato nei sedimenti di 65 milioni di anni orsono, principali imputati della scomparsa dal pianeta dei grandi rettili. Non ho controllato, ma sarei pronto a scommettere che già molti libri di scuola sono infettati da questa bufala. Il fatto è che alcune trivellazioni e carotaggi effettuati anche recentemente retrodaterebbero la formazione del cratere allo stesso periodo di Richat, e cioè non meno di 210 milioni di anni. Ma non è tutto, visto che anche la genesi da impatto è in discussione. Il cratere è visibile solo attraverso un procedimento, analogo alle analisi radar, consistente nella trasformazione in immagini delle anomalie gravitazionali, in quanto è in parte sommerso ed in parte sormontato dalla penisola dello Yucatan. Dalle foto appaiono invece le prime coincidenze e cioè la struttura degli anelli concentrici spiraliformi intorno ad un’area centrale “tormentata” con un contorno di anelli minori, in un primo tempo attribuiti alla genesi da impatto, ma che sappiamo da Richat poter avere tutt’altre spiegazioni.
Ma dall’immagine successiva emerge anche un’altra coincidenza, forse ancora più significativa della pura analisi morfologica.
La linea bianca al centro rappresenta la linea di costa, mentre le aree punteggiate testimoniano della presenza di piccoli crateri secondari, ma quello su cui dobbiamo soffermarci è la latitudine di 21° Nord, cioè esattamente la stessa di Richat.
Oggi i due crateri sono sulle rive opposte dell’Oceano Atlantico, ma dov’erano al momento della loro formazione e cioè oltre 210 milioni di anni fa? Ecco un’altra coincidenza: erano nello stesso punto del continente Pangea e solo in seguito si sarebbero allontanati seguendo la deriva dei continenti, come evidenziato dal cerchio giallo nell’immagine seguente.
Le prime conseguenze che potremmo trarne sono che gli abitanti dello Yucatan potrebbero trasformarsi tutti in ricchi commercianti di diamanti (ammesso che qualcuno li informi) e che fenomeni così violenti come quelli che hanno creato questi crateri potrebbero benissimo aver innescato la successiva deriva dei continenti, visto che come vedete in questa animazione è proprio da lì che il fenomeno sarebbe cominciato.
Qualcuno si chiederà ironicamente come mai non mi sia stato ancora concesso il Premio Nobel, ma gli ricordo che siamo nel mondo delle coincidenze, nulla a che vedere con il granitico rigore della superstizione scientifica. E poi non sono neanche del tutto il primo: già Chicxulub era stato messo in relazione con le formazioni vulcaniche delle Deccan Traps in India, anch’esse posizionate alla medesima latitudine, pur nella discutibile ipotesi che fossero dovute ad una specie di “contraccolpo” in seguito ad un impatto, che abbiamo visto non esserci probabilmente mai stato. Ma come è nata la superstizione dei crateri? Il primo ad ipotizzarne la genesi da impatto fu Alfred Wegener, più noto per la teoria classica della deriva dei continenti, ma fu Eugene Shoemaker che negli anni ’50 fece notare nella sua tesi di dottorato che le esplosioni atomiche sotterranee provocavano un ribaltamento degli strati superficiali di roccia, simile a quello che si poteva osservare ai margini del Metor Crater in Arizona. In entrambi i casi la crosta terrestre sembrava essere stata aperta, e catapultata verso l’esterno da un’immane e quasi istantanea liberazione di energia, avvenuta subito sotto la superficie: qualcosa che nessun vulcano, neppure il Krakatoa, aveva mai fatto su quella scala. Shoemaker analizzò anche le pietre metalliche trovate nel deserto intorno al cratere, giungendo alla conclusione che si trattava di meteoriti. A questo punto, uno studio dettagliato del cratere fu finanziato dallo U.S. Geological Survey e anche dalla NASA (che poi vi spedì i suoi futuri astronauti ad esercitarsi), e la comunità scientifica si convertì rapidamente all’ipotesi dell’impatto. Sono lieto che la caduta della Shoemaker-Levy su Giove abbia fatto pensare al compianto Shoemaker di non aver sprecato la propria vita, ma è col giovane Shoemaker che devo misurarmi, se voglio dimostrare che solo una piccola parte dei crateri è dovuta a fenomeni di impatto. Vediamo allora il cratere da cui è partita la sua ricerca, che gli ha tra l’altro fruttato l’imperitura gratitudine della locale azienda di soggiorno:
Mettiamolo adesso a confronto con l’immagine semi3d di un cratere causato da un ordigno atomico (Huron King):
Dato che non trovo una gran correlazione tra i due, non li posso ascrivere a pieno titolo tra le coincidenze ed anzi inserirei il tutto tra le superstizioni scientifiche. C’è un aspetto però nell’ultima foto che presenta un’ulteriore coincidenza. Lungo la circonferenza del cratere l’esplosione ha lasciato il terreno “vescicolarizzato” con le stesse geometrie che abbiamo già visto su Marte, Luna, Mercurio ecc., ma ancor più significativamente è possibile notare le stesse forme nel vapore residuo, in basso nella foto. Queste forme geometriche (cilindri, dischi, aste e nodi) trovano un’ulteriore coincidenza nei fenomeni di condensazione del fungo atomico anche ad alta quota, sia in questa immagine:
che in quest’altra del fungo di Hiroshima, ripresa da terra:
Il fenomeno appare ugualmente, ma con minore evidenza nel caso di pirocumuli eruttivi:
Curiosamente vi sono analogie anche in questa immagine della Nebulosa di Orione:
Il potenziale valore correlativo delle coincidenze è che queste geometrie non parrebbero derivare solo dai moti convettivi e dalle temperature di condensazione, ma invece avere tra le concause l’”avvitamento” di particelle molecolari lungo precise linee di forza, visto che oltre a essere presenti nei gas sono anche riscontrabili al suolo. Dato che abbiamo riscontrato lo stesso fenomeno nei crateri extraterrestri, una linea di ricerca possibile potrebbe essere quella di verificare se alcuni di essi siano stati originati da fenomeni naturali di fusione nucleare, a meno che non vogliamo pensare che siano il residuato di un antico conflitto intergalattico… Simili allineamenti geometrici sono riscontrabili anche a livello macroscopico, analizzando le foto spettrali ricavate dalle emissioni radiative di “funghi” derivanti da fissione nucleare:
Questa interazione tra moti convettivi e campi elettromagnetici, sia che sia riconducibile all’effetto Bose-Einstein o agli eccitoni (di cui parlerò più avanti) o a qualunque altro fenomeno, pare comunque avere un peso molto superiore a quello che si potrebbe pensare, visto che lascia dietro di sé gli stessi effetti nelle circostanze più disparate. Le coincidenze sono già molte, ma per scartare definitivamente l’ipotesi della genesi da impatto servono altri elementi. In fondo si sa che l’energia sviluppata in un ipotetica collisione con un asteroide sarebbe simile a quella prodotta da un ordigno nucleare, pur se molto superiore. Ma gli elementi, anzi le coincidenze, ci sono.
|
Margherita Campaniolo Web Master di
Tutto il materiale di questo sito è © di Margherita Campaniolo Vietata la riproduzione senza autorizzazione della stessa. |